BERESHEET LA SHALOM TEATRO ARCOBALENO

Stampa 2009

 

 

 

 


Lo spettacolo di ritrovarsi dalla stessa parte
 
Mentre a Nazareth il Santo Padre parlava di «educare le generazioni future nelle vie della pace», a Bet Shean un gruppo di giovani artisti di popoli “nemici” portava in scena il miracolo della convivenza

TEMPI n.21 | 19 maggio 2009 | di Rodolfo Casadei

Mentre a Nazareth il Santo Padre parlava di «educare le generazioni future nelle vie della pace», a Bet Shean un gruppo di giovani artisti di popoli “nemici” portava in scena il miracolo della convivenza...

Da Bet Shean

«For peace we can do everything». Un “oooh!” di meraviglia si leva dal pubblico, subito seguito da un applauso liberatorio. A dare la svolta al Concerto per la riconciliazione con cui Sat 2000 ha accompagnato il pellegrinaggio del Papa in Terra Santa è la vocina di un’adolescente del coro della chiesa del Cristo Redentore a Taibeh, l’unico villaggio interamente cristiano dei Territori palestinesi. Appena concluso il suo assolo di canto arabo senza accompagnamento musicale, la presentatrice israeliana le ha chiesto quanto fosse stato difficile e quella è stata la sua risposta.

Siamo a Bet Shean, Galilea, nello scenario da favola di un anfiteatro romano restituito a nuova vita da scavi archeologici che nel giro di trent’anni hanno portato alla luce le rovine di un’estesa città. Dalla collina sovrastante la vista toglie il respiro: archi, colonne e brandelli di mura fin dove arriva lo sguardo. Qui la tv dei vescovi italiani, in collaborazione con la tv israeliana, ha trovato la location ideale per il suo progetto: riunire artisti israeliani, palestinesi e internazionali per mostrare che la musica e la poesia sono capaci di riconciliare gli avversari e quindi ricreare le condizioni in cui il dialogo per la pace può svolgersi. Ci ha creduto un cast che va dai Gaia, il più famoso gruppo etno-rock israeliano, a Inas Massalcha, popolare cantante araba, al nostro tenore da esportazione Alessandro Safina, agli anglo-tedeschi Gregorian, al corpo di ballo palestinese di Ramallah, al coro Magnificat della Custodia di Terra Santa e tanti altri ancora.
Visto con gli occhi di chi arriva da Betlemme (distante appena due ore di corriera), dove da poche ore il Papa ha visitato il campo profughi di Aida ed è stato fotografato nei pressi del famigerato muro-barriera difensiva, il tutto può apparire una sfavillante garza sopra una ferita purulenta. Perché il muro invisibile della divisione può arrivare fin qui. Lo ha ricordato Benedetto in conclusione della sua omelia dedicata alla famiglia nella Messa celebrata sul Monte del Precipizio, a Nazareth. Ringraziando quanti si adoperano «per educare le generazioni future nelle vie della pace», il Pontefice ha sottolineato «gli sforzi delle Chiese locali, particolarmente nelle loro scuole e nelle istituzioni caritative, per abbattere i muri e per essere fertile terreno d’incontro, di dialogo, di riconciliazione e di solidarietà».

Un augurio che rimbalza sul palco e sulle gradinate di questo spettacolo, popolato di persone vere e non comparse di un film buonista: israeliani coi figli soggetti a una leva militare che è un anno per le ragazze e tre per i maschi, con qualche amico o parente ferito o morto in un attentato della Seconda Intifada o sotto le katiuscie di Gaza o degli Hezbollah libanesi; palestinesi le cui proprietà sono state sconvolte dalla costruzione del muro o dalle guerre e conflitti antecedenti. La verità buca definitivamente lo schermo quando Giulio Base, il presentatore italiano, dà la parola ad Angelica Edna Calò Livné, la regista delle azioni teatrali che i giovani arabi ed ebrei della compagnia Beresheet LaShalom compiono in momenti successivi dello spettacolo. Una sorta di fil rouge del concerto: la genesi di un conflitto, la tragica evoluzione, il timido inizio della riconciliazione, i gesti d’amore che la promuovono, le maschere infine gettate. «Quando il mio primo figlio è partito militare, mi sono chiesta cosa potevo fare io perché gli altri miei figli che crescevano e i figli di tutte le altre donne di questa terra non dovessero più partire per la guerra. E ho fatto questa opera».

Angelica, che è nata a Roma e si è trasferita ventenne in Israele nel 1975, è diventata giustamente famosa in Italia, dove la sua compagnia di ragazzi di tutte le etnie e religioni ha recitato già 22 volte e dove lei ha ricevuto il premio per la pace di Assisi alcuni anni fa. Beresheet LaShalom è nato nel kibbutz di Sasa in Alta Galilea, dove Angelica vive col marito Yehouda e quattro figli maschi. Un mondo difficile da immaginare, anche se il socialismo volontaristico e autosufficiente degli inizi si è molto stemperato, dissolvendosi di fatto in molti casi: i tre quarti dei 350 kibbutz ufficialmente esistenti in Israele (ciascuno con una popolazione attorno alle 500 unità) sono andati soggetti a processi di radicale privatizzazione negli ultimi trent’anni, specialmente dopo i crac finanziari che hanno colpito molti di essi a causa di investimenti sbagliati dei loro fondi pensionistici. Sasa è rimasto abbastanza fedele alle origini: tutti versano i propri stipendi all’amministrazione comune, che restituisce beni e servizi, compreso un budget finanziario assegnato alle famiglie in funzione dei loro bisogni, discussi e definiti da organismi di rappresentanza. Oggi però sono tollerate varie forme di proprietà privata, e il kibbutz non è più economicamente ripiegato su se stesso: ci sono kibbutzniks (così sono chiamati coloro che scelgono questo modo di vivere) che lavorano all’esterno e gente dei paesi intorno, sia ebrei che arabi, che lavorano stipendiati dal kibbutz; la scuola interna, che va dalle elementari alle medie superiori, è fruita anche da figli degli abitanti dei villaggi vicini.

Fusi in unità dalle tragedie
Angelica stessa, prima di dedicarsi interamente a Beresheet LaShalom, è stata insegnante nelle scuole di cinque paesini dei dintorni. «Il momento più drammatico della nostra storia è stato nel 2003, quando ci chiamavamo Teatro Arcobaleno e la nostra esperienza esisteva da un anno. Una delle nostre ragazze era andata a Mombasa proprio nell’albergo in cui avvenne il famoso attentato. Lei e la sua famiglia si salvarono per miracolo e tornò sconvolta. Non credeva più nella possibilità della riconciliazione e non voleva più stare con noi. Ma venne ugualmente alle nostre prove, e nel silenzio generale gridò tutta la sua disperazione. Si alzò Sharif, uno dei ragazzi arabi, e abbracciandola le disse: “Perdonami”. Lei si sciolse: “Sharif, non è colpa tua!”. Abbiamo pianto tutti insieme. Poi, due mesi dopo, al ristorante Maxim un kamikaze si fece esplodere e oltre ad otto ebrei morirono tre camerieri arabi: due erano cugini di Sharif. Quella doppia tragedia ci ha fusi in unità per sempre».

Shadi Khalloul, cristiano maronita e cittadino israeliano, è il manager di Beresheet LaShalom. Il villaggio dei suoi genitori, Kafar Bir’em (vicinissimo a Sasa), fu evacuato nel 1949 durante la guerra d’indipendenza di Israele e raso al suolo dall’esercito nel ’53 nonostante una sentenza giudiziaria favorevole al rientro degli evacuati, tutti cristiani. La comunità, che allora contava mille individui e che oggi ne ha 2.500, si è comprata terre e case nei villaggi vicini o nelle città di Israele, paese di cui sono da sempre cittadini. Ma attende da allora di vedere riconosciuti i propri diritti. Dice Shadi, che è ufficiale della riserva come luogotenente paracadutista: «Sono orgoglioso di essere cittadino israeliano, e lo dimostra il fatto che sono entrato volontario nell’esercito. Ma chiedo che ci siano restituite le nostre terre e le nostre case. In questo momento ci sono 100 persone della nostra comunità che lavorano nell’esercito o nella polizia di Israele: noi siamo leali a questo paese, meritiamo che ci sia resa giustizia». Appare difficile da credere, ma Angelica e Shadi del pellegrinaggio del Papa in Terra Santa dicono la stessa cosa: «Siamo contenti che sia venuto, ci ha fatto sentire meno soli». E sembrano rivolte a loro quelle parole pronunciate da Benedetto XVI a Nazareth: «Plasmando i cuori dei giovani, noi plasmiamo il futuro della stessa umanità. I cristiani volentieri si uniscono ad ebrei, musulmani, drusi e persone di altre religioni nel desiderio di salvaguardare i bambini dal fanatismo e dalla violenza, mentre li preparano ad essere costruttori di un mondo migliore».   


source: http://www.ilsecoloxix.it/p/cultura/2009/05/19/AMDbD3aC-israeliani_riconciliazione_palestinesi.shtml

 
MAGGIO 2009