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Rassegna «Diario dalla Galilea» 
 
di Massimiliano Smeriglio 
 
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Diario dalla Galilea/1 - 
«Imparare cucinando» 
di Massimiliano Smeriglio 
Sasa 
è un microcosmo nel nord di Israele, regione Galilea. E’ un luogo 
magico per molte ragioni, un kibbuz che intreccia storia e arte 
nella sua biografia. Cielo terso e freddo pungente, 900 metri sul 
livello del mare, silenzio assoluto fra le montagne. Intorno, le 
terre della Siria a 30 kilometri, ancora 30 i kilometri per arrivare 
al mare, solo due quelli di distanza dal Libano. A indicarci le 
distanze con il dito puntato agli orizzonti Edna Calò, che nel 
Kibbuz di Sasa ci vive da ormai vent’anni. Scrittrice, regista, 
romana di nascita, israeliana di famiglia, è tornata nei luoghi 
d’origine con in tasca ambiziosi progetti da realizzare. Operatrice 
di pace, la chiamano, per il suo impegno nell’educazione dei giovani 
musulmani, ebrei, cristiani di queste parti alla convivenza e al 
dialogo attraverso il teatro e l’arte. Ad ascoltare le sue 
suggestioni oggi c’è un gruppo di 20 ragazzi allievi della Provincia 
di Roma. Sono cuochi e operatori di sala della scuola di gastronomia 
di Marino, portati qui dall’Assessore provinciale al lavoro e alla 
formazione Massimiliano Smeriglio, con il progetto “Imparare in 
Amicizia – Beresheet inizia in Galilea”. Una settimana di formazione 
sulla cucina medio-orientale, e di incontri per imparare la forza 
della condivisione e del confronto con mondi altri. “Sasa è un 
esperimento felice che dura da un secolo e che al momento regge alla 
prova del tempo”, ci spiega Edna, che sarà la nostra padrona di casa 
per l’intera settimana. “Uno degli ultimi 80 kibbuz rimasti, su un 
territorio che fino a 20 anni fa ne contava quasi 200; siamo una 
novantina di nuclei familiari, 450 persone circa”. A differenza 
degli altri kibbuz israeliani, nati da insediamenti di ebrei 
polacchi, russi o tedeschi, quello di Sasa è stato fondato da ebrei 
americani. Un posto aperto, quindi, agli influssi della cultura 
occidentale, e sensibile alle suggestioni dell’arte in tutte le sue 
forme. Qui fin da bambini si studia musica, teatro, ceramica. Un 
luogo che nasce con l’idea forte della comunità e dell’uguaglianza, 
il sogno utopico del socialismo applicato, ma a numero chiuso. Nella 
comunità tutti hanno in egual misura, secondo uno schema di marxiana 
memoria; si mangia sempre tutti insieme, e ci si confronta su tutte 
le decisioni importanti in una sorta di assemblea permanente; 
l’accettazione di nuovi membri è sempre circoscritta ai gruppi 
parentali che lo abitano. E si capisce anche il perché di questa 
“selezione all’ingresso”: il kibbuz copre infatti ai suoi giovani 
tutte le spese degli studi, in cambio di ore di lavoro. Una sorta di 
borsa di studio del comune, un welfare state basato sul concetto di 
comunità allargata. 
 
Anche le case sono tutte uguali qui. Pietra che arriva da 
Gerusalemme, che protegge dal freddo invernale e dal caldo estivo. 
In una di queste strutture espone le sue sculture Varda Yatom; occhi 
azzurri intensi, sessant’anni, originaria di Tel Aviv e a Sasa ormai 
dagli anni ‘70, tra le dieci migliori ceramiste al mondo. Ha 5 figli 
maschi Varda, e come molte madri israeliane vive il conflitto 
drammatico tra l’appartenenza e il dovere del servizio militare, che 
in Israele è obbligatorio per uomini e donne, e la sua opposizione 
alla guerra e alla cultura della morte. In fondo le contraddizioni 
che attraversano Israele oggi si possono leggere anche così, tra le 
pieghe degli stati d’animo di Varda e delle sue opere, alla ricerca 
di un continuo equilibrio fra la paura e la speranza, sospesa tra 
rassegnazione, mista ad una ostinata volontà di resistenza. “L’arte 
mi permette di scacciare le paure”, ci ha detto. “Come quando hai un 
dolore in un punto del corpo, e spingi forte fino a farlo uscire 
allo scoperto. Questa è l’arte per me”. 
27 novembre 2009  
http://www.unita.it/news/mondo/91889/diario_dalla_galilea_imparare_cucinando 
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Diario dalla Galilea/2 - 
 
di Massimiliano Smeriglio 
Omer 
ha diciotto anni e viene dal kibbuz Neve Shalom, l’unico in Israele in cui 
convivono ebrei e musulmani. Ha un corpo da atleta e la passione per la 
musica e la fotografia; almeno una volta alla settimana corre nei boschi 
vicino al kibbuz di Sasa. Ha finito gli studi per ora, e come molti ragazzi 
che abitano in Israele, fa il suo anno di volontariato. C’era anche lui oggi 
a condurre le attività della giornata: gita a piedi sulla cima del monte 
Meron, riserva naturale di 11 mila ettari e un panorama che va dal lago 
Tiberiade al Golan. Il sentiero da percorrere si chiama “la strada di 
Israele” e sui massi usati per indicare la via ci sono tre colori: il verde, 
come il colore degli alberi della parte nord della Galilea, rigogliosa e 
ricca; il giallo, come il deserto del profondo sud. Il blu, che è il colore 
dell’acqua. Omer è uno dei 9 ragazzi della fondazione Beresheet la Shalom, 
di Edna Calò. 
 
Al momento sono 5 arabi e 4 ebrei, che collaborano come volontari per un 
anno, quello dopo la fine della scuola. Hanno 18 anni, e come tutti i loro 
coetanei, possono scegliere di prendersi 12 mesi per decidere cosa fare da 
grandi. Vivono e lavorano insieme ogni giorno. Per quelli di loro che sono 
ebrei, questo periodo precede il servizio militare; per gli arabi invece si 
tratta di una pausa prima di iniziare gli studi universitari. Jamil per 
esempio è un arabo cristiano. I suoi genitori sono molto contenti che sia 
andato via e che viva con quelli della fondazione, perché ultimamente nel 
villaggio girava troppa droga. Avri invece viene da Gerusalemme ed è un 
ebreo praticante. Durante la festa dello Shabbat, così, lui non può 
partecipare alle attività della giornata, ma solo guardare. La fondazione 
vive e opera da 8 anni. “Io insegnavo teatro nelle scuole, quindi lavoravo 
già con gli adolescenti”, ci racconta Edna. “Vedi, impari a convivere con la 
paura, ma io sentivo il bisogno di fare qualcosa che potesse cambiare il 
mondo, di fare qualcosa per far conoscere e dialogare ragazzi di culture 
diverse”. 
 
La 
pace la puoi praticare a partire dalle piccole cose, questo ripete sempre. E 
sul campo lei ha scoperto la forza dei giovani. “Quando li metti insieme, ti 
accorgi che dopo poco cadono tutte le barriere”. E il loro modo può 
diventare un esempio per quelli dei villaggi da dove arrivano. Un marketing 
virale applicato alla vita. Così, in questi 8 anni, le attività della 
fondazione si sono moltiplicate. Oggi Omer, Jamil, Adi e gli altri insegnano 
protezione ambientale, teatro, arte e balli ai ragazzi di un villaggio Druso 
e a quelli di Sasa, lavorano in un villaggio musulmano e in una ludoteca, 
oltre a fare teatro con il “teatro dell’Arcobaleno”, altra invenzione di 
Edna. Hanno una squadra di calcio e un programma alla radio. Hanno imparato 
anche loro a rispettare le differenze e ad aiutarsi. “Un po’ di tempo fa 
abbiamo conosciuto un ragazzo di 19 anni druso, che ha scoperto di essere 
omosessuale e ha deciso di dirlo in famiglia. Il padre gli ha ordinato di 
sposarsi, ma lui si è rifiutato ed è venuto da noi. Lo abbiamo aiutato a 
scrivere una lettera ai genitori per spiegargli cosa sentiva e il perché 
delle sue scelte. Lo hanno picchiato e allontanato da casa. Ha vissuto qui 
con noi per 3 mesi”, ci dice Edna. “Oggi l’abbiamo sentito; è felice e vive 
e lavora a Eilat”. 
 
Tutto sa di armonia e pace sul monte Meron, tranne i colpi vicinissimi 
dell’artiglieria israeliana che prova l’efficacia dei pezzi dopo un periodo 
di piogge. Sono quei tonfi a ricordarci che le cose sono un po’ più 
difficili di come ci appaiono. Anche se il gioco sulla relatività dei punti 
di vista che i giovani musulmani ed ebrei hanno proposto ai nostri ragazzi 
della scuola di Marino oggi è la chiave giusta per interpretare il futuro: 
una storia a fumetti su tanti fogli, per imparare a guardare la stessa scena 
da angolazioni diverse. Un batuffolo di ovatta che fa sentire più distanti 
le voci delle armi.		 
29 novembre 2009		
http://www.unita.it/news/91936/diario_dalla_galilea__2 
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Diario dalla Galilea/3 - 
 
di Massimiliano Smeriglio 
La 
città di Zfat è famosa per tanti motivi. Intanto, perché da qui ha avuto 
inizio la corrente mistica della kabala. Il principio di fondo è 
semplicissimo: è il bene che può cambiare il mondo. Per noi, per tutti 
quelli che la religione la studiano per la filosofia, alcuni precetti sono 
semplicemente etica, etica di vita. E la forza della kabala sta nel suo 
significato più ancestrale: la ricomposizione in un luogo di energie 
disperse. Zfat è anche città degli artisti, che popolano i suoi vicoli di 
botteghe, di pitture e acquarelli. Passeggiando scopri una città densa di 
spiritualità: case, sinagoghe e la storia che respira tra le mura. Il suono 
di un corno antico che è una benedizione dalla casa antica di Joseph Caro, 
rabbino capo che ha scritto lo Sholhan Aruch, la “Tavola apparecchiata”, 
raccolta di tutte le leggi della Bibbia. Qui vivono moltissimi ebrei 
ortodossi. Riccioli lunghi dietro le orecchie e abbigliamento tradizionale, 
ne incrociamo tantissimi. Un luogo di diaspore ricomposte e ricominciate. 
Anche il Presidente palestinese Abu Mazen ha la sua casa di famiglia qui, 
dice spesso che la pace verrà quando potrà tornare nella sua città natale 
abbandonata nel 1948.  
 
Diaspore che chiamano diaspore. Come quella della popolazione caucasica dei 
Cirkassi. Ci spiega la loro storia un insegnante del villaggio, che ci 
accoglie vestito con gli abiti tradizionali. Mille anime, dall’altra parte 
del Monte Meron, sempre confine con il Libano. In questo fazzoletto di terra 
resistono due piccole comunità. Cristiani nel 300 dc, musulmani dal 600, 
contesi tra Bisanzio e gli ottomani, combattuti e vinti dai russi che ne 
hanno massacrato il 60% della popolazione per poi disperderli nei luoghi più 
lontani dell’impero. Comunità sconfitte, ma non umiliate. Una diaspora 
ancora in corso di oltre undici milioni di persone sparse tra l’Asia, il 
medio oriente ed il resto del mondo. Una lingua antichissima con un alfabeto 
di sessantaquattro lettere. Al confine tra il Libano e Israele questo popolo 
guerriero oggi vive in pace in terra ebraica, da musulmano che adora ancora 
la madonna, attaccata alla parete, in omaggio al più incredibile dei 
sincretismi.  
 
Ma la diaspora che non ti aspetti è quella dei nostri ragazzi di Marino alle 
prese con una esperienza che li proietta in luoghi e vicende assai lontane 
dal loro vissuto quotidiano. Prendi Maira, per esempio. Pensava che il suo 
primo volo aereo sarebbe stato per la Spagna, destinazione Barcellona. E 
invece si ritrova a gestire con i suoi 17 anni una realtà complessa come 
quella che vive oggi questa parte del mondo. Eric di anni ne ha 16 anni e 
studia per diventare chef; ad aprile è andato come volontario insieme ad 
alcuni suoi compagni a Coppito, per cucinare nelle tendopoli. Ha imparato in 
questi giorni a salutare in ebraico. Enrico in questi giorni ha scoperto il 
fascino delle donne medio-orientali, e con i ragazzi cirkassi si è cimentato 
nei loro balli tradizionali. Poi c’è Luca, e Riccardo, e Azzurra. E tutti 
gli altri. Sono un concentrato di energia e di potenzialità inespressi, 
compressi spesso da luoghi comuni e confini che rischiano di spegnerli prima 
del tempo. Energia pura, talenti inconsapevoli che, per la prima volta nella 
loro vita, si trovano ad errare fuori contesto, oltre il perimetro del 
linguaggio e dei paesini alle porte di Roma dai quali provengono, oltre le 
cose conosciute che li rassicurano. E la cosa stupefacente è che il loro è 
un andare per il mondo senza protezione che funziona, una diaspora che 
governano con istinto e creatività.  
 
Devi sperare che il viaggio sia lungo, dice il poeta. A volte può bastare un 
viaggio breve, ma intenso e profondo, un viaggio nella terra di mezzo dove 
danza il confine tra oriente e occidente. Qui, nel luogo del pericolo, puoi 
incontrare un sacco di storie incredibili e puoi persino rischiare di 
incontrare te stesso. L’importante è rimanere in veglia durante l’attesa e 
magari andargli incontro. 
30 novembre 2009  
http://www.unita.it/news/91992/diario_dalla_galilea__3 
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Diario dalla Galilea/4 - 
«La festa del sacrificio» 
 
di Massimiliano Smeriglio 
Verdure 
tagliate, minestra di lenticchie rosse, pollo su un letto di riso con pinoli 
e mandorle. Città di Bedjean, villaggio druso. Ancora Galilea. Kamal e sua 
moglie ci accolgono a casa loro. Quattro pareti di un prefabbricato e un 
grande giardino davanti con sei tavole apparecchiate. Hanno cucinato un 
pranzo da matrimonio, nonostante per loro questi siano giorni molto 
importanti: si festeggia infatti “la festa del sacrificio”, che sarebbe poi 
l’equivalente del nostro capodanno. Kamal e sua moglie sono drusi, 
musulmani, israeliani. Popolazione divisa fra Siria, Libano e Israele. 
Popolazione che monta le diverse divise e che somma alla tragedia generale 
anche quella della loro dolorosa guerra civile. E’ un regalo che ci fanno, 
una pausa nelle loro feste. Per ringraziarli della disponibilità, July, che 
lavora con Edna alla fondazione e che oggi ci accompagna, si è presentata 
con quattro pacchi di uova fresche e una pianta.  
 
Kamal è uno dei primi a essere entrato a far parte del “Parent Circle”, il 
forum che riunisce i familiari di quanti hanno perso un parente caro nel 
conflitto israelo-palestinese. Prima un figlio, poi un altro. Racconta la 
sua storia e il suo punto di vista. Crede nella reincarnazione, e sa che le 
anime migrano da un corpo all’altro. Ha lo sguardo fiero Kamal, e il viso 
segnato di chi nella vita ha subito un lutto. Chissà perché, le tragedie 
spesso segnano i volti. Sono rughe più profonde dell’età.  
 
Anche Kamed ha quegli occhi, quell’aurea che alcuni uomini si portano 
dietro; impronte e storie che tolgono il fiato. È venuto con la sua famiglia 
da un villaggio di Abu Dis al pranzo organizzato oggi, ospite come noi. Fa 
parte del “Parent Circle” anche lui, ma a differenza di Kamal è palestinese. 
E sì, perché la forza del progetto del forum sta proprio in questo, nella 
sua capacità di unire al suo interno israeliani e palestinesi. Kamal ha 
perso due fratelli dieci anni fa. Il primo aveva 31 anni, il secondo 14. 
Esiste un “prima” e un “dopo” in alcune vite. Lui per esempio faceva 
l’insegnante prima di andare in carcere per la sua attività politica; è lì 
che ha imparato a parlare perfettamente l’ebraico. Ma quando è uscito, dopo 
un anno e mezzo, si è dovuto inventare un’altra identità perché per fare il 
maestro non era più buono.  
 
Prima e dopo. Questione di punti di vista sia per Kamal sia per Kamed, che 
dopo la perdita di un figlio o di un fratello hanno fatto la scelta più 
difficile: elaborare il lutto, condividere il dolore con tutti quelli che 
sopravvivono alle morti di una guerra. Per non diventare zombie in terra, e 
provare magari anche a cambiare le cose. Un sasso in un mare che oggi ci 
pare un macigno.  
 
“Il dialogo è possibile”. Lo dicono e lo provano a una platea di 20 ragazzi 
italiani che li ascolta in un silenzio che è apnea. A chi magari di quel 
conflitto ha avuto fino ad ora solo un’eco lontana. Dice Kamel che la parola 
da usare è “riconciliazione”, e oggi da qui, da questo giardino, sembra 
tutto possibile. Dice anche che vanno bene le dichiarazioni di Obama, e che 
sono una speranza, soprattutto se paragonate al vuoto di prima. Ma quelle 
parole non bastano, non bastano i leader, dice. Serve l’impegno di quelli 
che i morti li piangono ogni giorno, un impegno che si fa a partire da 
“noi”, e in quel noi ci sentiamo tutti coinvolti qui, da questo giardino che 
oggi sembra essere il centro dell’universo.  
 
E mentre parlano, Kamed e Kamel, non puoi fare a meno di pensare a quanta 
storia si portano dietro, figli di una vicenda più grande cha cammina da 
secoli sul filo che unisce e divide le cose del mondo. 
01 dicembre 2009  
http://www.unita.it/news/92055/diario_dalla_galilea4__la_festa_del_sacrificio 
 
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Un falafel per cambiare le 
cose 
di Massimiliano Smeriglio 
Ceci, mollica di pane, prezzemolo tritato, aglio, sale, pepe e cumino in 
polvere. Sono gli ingredienti del falafel, piatto tipico di queste parti. 
Aspetto fondamentale, la temperatura dell’olio per la frittura, non troppo 
alta, dice Cesare. Questione di equilibri. Siamo in Galilea, nord di 
Israele. Cesare fa lo chef al kibbuz Sasa, 450 anime al confine con il 
Libano, e questa sera dà lezioni di cucina mediorientale. È italiano, ma nel 
kibbuz ci si è trasferito da più di vent’anni. Vita simile a quella di una 
comune, socialismo applicato: si lavora per la comunità, senza stipendio. 
Ognuno dà in base alle proprie possibilità, a ognuno in base alle proprie 
necessità. Dalle colline dietro alla scuola del villaggio, nel 2006, i 
cronisti del mondo venivano a raccontare indiretta la guerra con il Libano. 
Riccardo il falafel l’aveva mangiato solo al chiosco sotto casa, e prima di 
questo viaggio non sapeva nemmeno dove fosse la Galilea. Ha dovuto cercare 
sulla cartina e prepararsi per capire che questo fazzoletto di terra 
racchiude secoli di storia. Ha sedici anni Riccardo e studia per diventare 
chef. È stato cinque giorni in giro per la Galilea con venti compagni della 
scuola di gastronomia di Marino, paesino alle porte di Roma, per il progetto 
“Imparare in amicizia – Beresheet La Shalom”, dell’assessorato al lavoro e 
formazione della Provincia di Roma. Una settimana di viaggio lungo l’estremo 
nord di Israele per imparare tecniche di cucina etnica e entrare in contatto 
con mondi “altri”. Provare sul campo che le differenze sono somma e non 
sottrazione. Giornate intense, fatte di incontri, di voci e volti. Racconti 
di popolazioni che resistono, ostinate e caparbie, con le loro tradizioni. I 
drusi di Beat Jean; i cirkassi di Rehania, gli ebrei ortodossi di Zfat. E il 
sapore di ricette antiche:lo shawarma, le pitte druse, le spezie della carne 
della cucina ebraica – tunisina. Giornate di storie. Come quella di Kamel e 
Kamed, il primo druso musulmano, il secondo palestinese. Entrambi membri del 
Parent Circle, l’associazione che riunisce chi ha perso un familiare nel 
conflitto israelo-palestinese. Raccontano il loro dramma, Kamel e Kamed, ma 
non c’è odio nei loro occhi. Solo il dolore della perdita. Parlano di 
“riconciliazione” e praticano il dialogo. Unica via per fermare un cerchio 
che pare una spirale. All’inizio del secolo Nicola Sacco scriveva a suo 
figlio prima di essere ucciso: non smettere mai di giocare, e la gioia del 
gioco non tenerla tutta per te. Piccole pillole, sassolini in mezzo al mare, 
che sono però speranza di cambiamento, fiori preziosi da curare e 
condividere. Come Riccardo e gli altri, forse per la prima volta alle prese 
con un mondo più grande della piazza del loro paesino. L’augurio è che 
continuino il viaggio, che continuino a incontrare le persone e ad ascoltare 
le loro storie, perché sono le persone che possono cambiare il mondo.		 
12 dicembre 2009  
http://www.unita.it/news/92567/un_falafel_per_cambiare_le_cose 
       	    
 
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