BERESHEET LA SHALOM TEATRO ARCOBALENO

Stampa 2009

 

 

 
 
Donne d'Israele - Edna Calò Livné
La pace inizia dai ragazzi

UCEI 16 febbraio 2009, Daniela Gross

Israele: terra di conflitti. Di gerre. Di odi. Di speranze dissoltesi nel turbine della violenza.

Ma Israele è anche terra di speranze di pace. Di tentativi di costruire, insieme 'agli altri', un futuro comune che, partendo proprio da una reciproca conoscenza, da una reale accettazione, da una convivenza che parla realmente di pace porti ad un domani diverso.

E' il cammino che, nel nord di Israele a Sasa kibbutz, Angelica Edna Calò Livné sta sviluppando da anni partendo proprio dai ragazzi, da coloro che, domani, potranno (e dovranno) essere i reali costruttori di una pace giusta.

Sembra quasi una speranza illusoria in questi tempi calamitosi, eppure è qualche cosa che non viene lasciato cadere, ma proprio in questi terribili tempi viene riproposto come unica via capace di generare una convivenza pacifica.

Non si tratta di una delle tante utopie che sembrano nascere e morire su quella terra troppo e troppo a lunga martoriata, ma di un processo lungo, faticoso e credibile.

E' l'azione che oggi Daniela Gross illustra con questa intervista dalla quale emerge la volontà di perseguire l'unico, anche se difficile, cammino in grado di garantire a tutti un effettivo domani diverso. Quella stessa azione che, in diversi ambiti, vede impegnata anche Ariela (che vive in un kibbutz non lontano da quello della Livné dove la convivenza tra etnie e religioni diverse è una realtà concreta consolidata).

Segno che le 'donne d'Israele' non si limitano ad un'accettazione passiva del buio dei giorni nostri, ma operano affinchè l'orizzonte di pace possa essere, se non subito ma almeno in futuro, un reale obiettivo da perseguire con ogni sforzo.

Persone alle quali non può mancare l'augurio e il sostegno di chi abbia veramente a cuore Israele.

“Quando mio marito Yehuda partì per la guerra del Libano, nell’82, ero incinta del nostro primo figlio. ‘Tu non dovrai mai andare in guerra’, ripetevo a quel bimbo dentro di me. Ma le cose purtroppo sono andate in modo assai diverso”. Solo pochi giorni fa Angelica Edna Calò Livné, romana di nascita, dal 1975 in Israele, ha visto partire per il corso ufficiali il suo terzo figlio. E prima di lui era stata la volta degli altri suoi due ragazzi. Ma la speranza di pace di questa signora, che ha superato i 50 e sembra una ragazzina, non è affatto spenta.

Nel nord d’Israele, dal kibbutz di Sasa, Edna, ricci neri a cascata, un’energia e un’allegria invidiabili, continua a coltivare nei suoi ragazzi i valori della convivenza, del dialogo, del rispetto, l’amore per l’ambiente, il senso dell’arte. Strumento principale, il Rainbow theatre che dal 2001 vede recitare insieme, con grande libertà creativa, ragazzi ebrei e arabi, cristiani, drusi e circassi, religiosi e laici. E accanto al teatro una radio, The all peace radiostation, anch’essa multiculturale; la formazione per i ragazzi che a loro volta vogliono farsi educatori dei coetanei; una squadra di calcio; incontri e conferenze e, a breve, un nuovo progetto nel campo dell’ecologia. Il tutto sotto il cappello di una fondazione, “Beresheet la Shalom – Un inizio di pace” che oggi coinvolge in Israele quasi 800 ragazzi di religioni ed etnie diverse. Una realtà che tanti italiani hanno ormai imparato a conoscere anche attraverso il Diario dalla Galilea che per alcuni anni Edna Calò ha tenuto su Repubblica e da poco è divenuto un libro (Proedi editore).

Edna, come inizia l’avventura di Beresheet la Shalom?
E’ nata sull’onda della seconda intifada. Il primo dei miei figli era in esercito. Ero preoccupata, per un anno sono stata malissimo. Poi ho accompagnato in Italia, a una colonia dell’Ose (Organizzazione sanitaria ebraica), un gruppo di bimbi israeliani vittime del terrorismo. Lì mi sono resa conto che bisognava fare qualcosa per promuovere la pace. Mi occupavo da anni di teatro creativo e sociale, avevo insegnato in molte scuole. Così ho pensato di mettere insieme bambini ebrei e arabi per farli lavorare insieme.

Quale accoglienza ha trovato il tuo progetto in Israele?
Non è stato facile. Ho incontrato dei no sia al kibbutz sia al Regional council cui avevo chiesto di metterci a disposizione una struttura per gli incontri. Ma ho deciso di andare avanti lo stesso. Così ho chiamato i ragazzi arabi che lavoravano nelle cucine e li ho fatti incontrare con coetanei ebrei e cristiani. L’esperienza è cresciuta al punto che oggi il teatro copre la regione da Nahariya fino oltre Zfat. Vi partecipano, ogni lunedì circa 30 giovani per un totale che finora è di quasi 150 ragazzi.

Negli anni il tuo progetto si è sviluppato anche nelle modalità. Tanto che dopo la radio, il calcio e la formazione adesso è in arrivo anche un progetto legato all’ambiente.
L’idea è di dare vita a un centro ecologico, in collaborazione con il sistema dei parchi naturali, per educare i ragazzi alla pace attraverso le arti e l’ecologia. I giovani devono riuscire a trovare le risorse dentro se stessi realizzando un’armonia con le persone e con l’ambiente che li circondano. Solo così possiamo pensare di costruire il futuro.

Quest’accelerazione delle iniziative significa che le diffidenze iniziali sono state superate?
In parte sì. Tante delle cose che facciamo arrivano in modo naturale. Spesso ho la sensazione di navigare su una bella barca. Scivolo accanto alle persone, tendo la mano e loro salgono a bordo. A volte siamo controcorrente e tantissimi ostacoli ci s’infrangono addosso. Ma quando mi sembra d’affondare l’acqua d’improvviso si calma.

Perché la scelta del teatro per lavorare con i ragazzi?
Il teatro è uno strumento potente. Recitando si entra in un altro personaggio. Si allarga il proprio repertorio e s’interpreta ciò che si ha dentro, senza sentirsi minacciati. E quando vedi che gli altri ti accettano prendi coraggio e vai avanti. Più in generale il progetto di Beresheet la Shalom ha successo perché parliamo ai ragazzi di comunità, di ciò che dà speranza. Questo li rende più forti e li fa sentire profondamente partecipi.

Come avete vissuto, nel vostro gruppo, il periodo della guerra di Gaza?
Sono stati momenti molto difficili. Per questo abbiamo cercato di parlarne. Ci siamo seduti in cerchio e abbiamo cercato di capire come ci sentivamo. Avevamo tutti le lacrime agli occhi. La cosa straordinaria è che nessuno dei ragazzi ha accusato la controparte o ha avuto parole di opposizione, di scontro. Hanno parlato tutti di speranza e d’amicizia esprimendo la loro profonda preoccupazione.

Quale riscontro può avere adesso in Israele un’iniziativa come Beresheet la Shalom?
In Israele oggi c’è molta sfiducia e delusione. La gente non crede molto in progetti come il nostro. Ma poi ci vengono a vedere e quando si rendono conto che la cosa funziona davvero si emozionano tantissimo.

In tutti questi anni hai mai avuto paura?
Solo una volta. Quando al tempo dell’intifada decidemmo di incontrarci nei territori con un gruppo palestinese per la giornata dedicata al pane della pace. Qualche giorno prima ebbi un attacco d’ansia spaventoso. Poi di shabbat, al Tempio italiano di Gerusalemme, mi capitò tra le mani la parashà della settimana in cui si parlava proprio di pane, di pace e di serenità. Per me fu un segno: dovevamo andare avanti e così facemmo. Non accadde nulla a nessuno di noi.

Edna, l’intero progetto è nato dal pensiero dei tuoi figli. Loro come vivono quest’impegno per la pace?
Abbiamo fatto tutto insieme. Il piccolo, Or, partecipa agli spettacoli da quando ha quattro anni. I primi due, Gal e Yotam, oggi sono alla guida dei nostri progetti. Il terzogenito Kfir è stato tra i primi a partecipare al Rainbow theatre. All’inizio non voleva perché la regista era sua madre. Lo provocai chiedendogli se non si rifiutava di recitare per la presenza di ragazzi arabi. Così ci venne a vedere e alla prima occasione salì in scena. Da quel giorno fu uno dei personaggi principali. Di recente, quando si è arruolato, mi ha detto che una delle cose più belle che gli sono capitate è stata proprio l’esperienza del Rainbow theatre. E’ stata per me una soddisfazione immensa.

Daniela Gross

 
 
FEBBRAIO 2009