Teatro Arcobaleno Rainbow Theatre

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L'inchiesta
Giorgio Paolucci
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L'inchiesta.
Da tre anni una lunga scia di sangue segna la vita in Israele e nei Territori. La seconda Intifada è già costata la vita a 2500 palestinesi e 750 israeliani e le trattative di pace segnano il passo. Con questa pagina comincia un viaggio tra i giovani dei due popoli che sono al tempo stesso vittime e protagonisti di una violenza che non accenna a fermarsi. Ma che possono diventare anche gli attori di un futuro nel segno della concordia, se già da oggi comincia un lavoro educativo che mette al centro il valore della persona e il rispetto dell’altro. C’è chi ci sta provando, è giusto farlo conoscere.

TITOLO: PIU' FORTI DEI KAMIKAZE
GIOVANI SUL FRONTE il fatto

Vacanza italiana per 50 giovani israeliani vittime del terrorismo, ospiti della comunità ebraica. Per uscire dall’incubo della violenza E per capire che l’odio non porta lontano.

Un seme di speranza piantato nel cuore di chi sogna un futuro diverso per il proprio Paese. E per chi appartiene a un altro popolo
“Quel giorno al centro commerciale ho perso la mia innocenza. La vita si è inspessita come le cicatrici che porto addosso. Ma non riesco a odiare”

“Coi palestinesi si può convivere, ognuno in una terra dove si diventi grandi in maniera normale. Si deve ripartire dall’educazione, troppi crescono con il nemico in testa”

DI GIORGIO PAOLUCCI

La pizza, si sa, in Italia è un’altra cosa. Per Moriah, ragazza israeliana di 15 anni, quella che ha mangiato qualche giorno fa in riva al mar Tirreno è qualcosa di speciale. Ma non solo per motivi gastronomici. A parlare di pizza le veniva il voltastomaco, da quando in quel maledetto 16 febbraio di due anni fa il mondo le era caduto addosso. Ridevano e facevano baccano, lei e gli altri sette amici, seduti al bar del centro commerciale alla periferia orientale di Tel Aviv, dopo avere ordinato pizza e coca-cola per tutti. “D’improvviso un rumore assordante, intorno tutto diventa nero, il braccio sinistro è come se non l’avessi più, penzola per conto suo. Vorrei urlare ma la voce si è paralizzata in gola. Intorno è tutto nero, i miei amici non li vedo più, dentro di me sale un grande freddo. Mi caricano sull’ambulanza, solo allora so di essere capitata in mezzo a un attentato. Il kamikaze, mi diranno dopo, è uno che ha due anni più di me: mio Dio, come è possibile? E il braccio, dov’è finito il mio braccio?”.

“Vedi come lo alzi bene? Brava, hai fatto grandi progressi, vedrai che quando ci si vede l’anno prossimo sarà tutta un’altra cosa”. Doriano, giovane fisioterapista italiano, da qualche giorno aiuta Moriah a continuare il programma di riabilitazione impostato dall’ospedale Schneider, vicino a Tel Aviv. Da dieci mesi la ragazza deve andare quattro volte alla settimana al reparto Petach Tikva, "La porta della speranza", dove cercano di rimettere in sesto quelli come lei. Lì i medici le hanno spiegato che non potrà più suonare né la chitarra né il flauto, le sue due grandi passioni, anche se riuscirà a fare un sacco di cose con quel braccio che temeva di avere perso per sempre. Ma prima di arrivare in quel reparto, ci sono volute dieci operazioni per ricucire il giovane corpo straziato dalla bomba del kamikaze palestinese. Dopo tanto tempo passato a ricordare nel silenzio di un dolore macerante, Moriah ha deciso di parlare. Col groppo in gola, ma senza alcun desiderio di vendetta, senza coltivare l’odio. Racconta che all’ospedale Schneider insieme a lei stanno curando anche un ragazzo arabo che si è ferito mentre preparava una bomba. “Non voglio passare la mia vita a imprecare contro chi fa queste cose, con l’odio nel cuore si vive male e non si costruisce nulla. Quel giorno al centro commerciale ho perso Shira, la mia compagna di banco, e ho perso la mia innocenza. Ho imparato che il male esiste, e forse esisterà sempre sulla terra. Per una ragazza di 13 anni come me la morte era qualcosa di lontano, l’importante era come cadono i capelli sulle spalle e vestire jeans alla moda. Ora la mia vita si è inspessita come queste cicatrici che non mi lasceranno più”

Quando finisce la seduta di fisioterapia, Moriah torna in giardino a giocare con gli altri ragazzi israeliani che uno strano destino ha fatto incontrare in terra italiana. Sono arrivati in cinquanta, ospiti della comunità ebraica che voleva fare qualcosa di concreto per i giovani che sono stati indelebilmente segnati dal terrorismo. Una settimana lontano dal clima di tensione che si respira nel loro Paese, accompagnati da dieci studenti universitari e da Angelica e Yehuda Calò Livné, marito e moglie, due insegnanti da anni impegnati in attività educative che coinvolgono arabi ed ebrei nel tentativo di creare una cultura di pace (si veda l’articolo in questa pagina). L’iniziativa si chiama “Con le pinne, senza fucile, ed occhiali” ed è un contributo a farli vivere in quelle condizioni di normalità che da anni in Israele non ci sono più. “Qui non si fa psicoterapia di gruppo, non è il nostro mestiere - chiarisce Angelica, ebrea nata a Roma 48 anni fa, allieva del rabbino Toaff e che a vent’anni ha scelto la vita di un kibbutz di Galilea -. Ai ragazzi offriamo una vacanza, la nostra amicizia, un’atmosfera serena in cui vengono aiutati a superare lo choc di cui sono rimasti vittime e a ritrovare uno sguardo positivo sulla vita. In questi giorni qualcuno è tornato a sorridere dopo mesi: e questa, non è già una cosa grande?”.

È tornato a sorridere Avishai, capelli rossi e lentiggini a profusione, lo sguardo perso di uno che in pochi istanti si è visto rapire per sempre la madre e due sorelle. All’inizio dell’anno gli hezbollah sono scesi dal Libano e hanno seminato la morte a Naharia, nel nord della Galilea. Dopo quelle raffiche di kalashnikov Avishai è rimasto solo con suo padre, come era successo l’anno prima ai suoi amici Erez e Gadi che avevano perso entrambi i genitori in un altro attentato, e ai quali sua madre aveva fatto una promessa che non può più mantenere: “Ora che siete orfani mi prenderò cura di voi, qualsiasi cosa accada”. Avishai, che quando è sbarcato a Fiumicino non alzava mai lo sguardo da terra e se ne stava sempre per conto suo, in questi giorni di vacanza italiana ha aperto la porta di un cuore che per mesi era rimasto chiuso a chiave, si è confidato con Angelica e gli altri, ha ritrovato il sorriso.

L’ha ritrovato anche Omri, che a 16 anni ha perso il padre per la follia omicida di un kamikaze che si è fatto esplodere nel suo ristorante a Natania, affollato da decine di israeliani che festeggiavano la vigilia di Pasqua. Lui, Omri, è stato solo sfiorato dalla morte, salvo perché nel momento fatale era fuori dal locale. Ricorda a memoria le parole che sua madre disse ai microfoni della televisione, poche ore dopo l’attentato: “Da domani mi rimbocco le maniche, dovrò prendere il posto di mio marito”. Dove trova la forza per questo, le aveva chiesto il cronista. “Se dipendesse solo da come mi sento adesso, me ne andrei a letto e mi lascerei morire. Ma ho sei figli, come faccio ad arrendermi? Ricomincio da loro”. Neppure Omri, come i suoi compagni di sventura, coltiva l’odio, e si rimane colpiti dalla sua capacità di guardare al futuro in maniera positiva. Dice che “con i palestinesi si può convivere, ognuno nella sua terra, ognuno in un Paese sicuro dove si possa diventare grandi in maniera normale, ma in troppe delle loro scuole si insegna a odiare, e i giovani crescono con il nemico nella testa. Bisogna ricominciare dall’educazione di noi giovani, non voglio vivere come se fossimo sempre in guerra”. Si può sperare che questo accada? Omri guarda i suoi compagni di sventura, aggrotta la fronte, accenna un timido sorriso. Stanno preparando una serata di canzoni israeliane, una l’ha composta lui, che è uno sfegatato del rap. Accenna poche parole: “Anche se il cuore è spezzato in mille schegge, c’è ancora un dopo in cui sperare”. Chissà se, quando diventeranno grandi, questi ragazzi riusciranno a costruire la pace che sembra impossibile.


La pace? La faranno le madri
GIORGIO PAOLUCCI

“Tornano a casa con le valigie piene di speranza e con uno sguardo positivo sulla vita. Più consapevoli che quello che gli è capitato li rende dei simboli, e che anche per questo dal loro comportamento dipende un po’ del futuro di Israele. Quello che succede laggiù in questi giorni indurrebbe solo al pessimismo, noi invece continuiamo a sperare che le cose possano cambiare. Non per becero ottimismo, ma perché siamo convinti che bisogna partire dai giovani e puntare tutto sull’educazione, insegnare il valore della persona e il rispetto dell’altro. Noi ci stiamo provando, anche in questi giorni”. Parola di Angelica e Yehuda Calò Livné, marito e moglie, i due insegnanti quarantenni che hanno guidato la settimana di vacanza italiana di 50 ragazzi israeliani vittime del terrorismo. Tutta la loro vita è una scommessa sull’educazione dei giovani: insegnano nelle scuole superiori della Galilea, fanno parte del progetto "Leadership nell’educazione" che da dieci anni coinvolge un gruppo di docenti della regione - ebrei, arabi musulmani e cristiani, drusi - che cerca di gettare ponti tra le diverse comunità etniche e religiose. Lei, Angelica, i ponti li costruisce anche con il teatro. Nata a Roma dove ha frequentato il collegio rabbinico avendo come maestro Elio Toaff, trasferitasi ancora ventenne nel kibbutz israeliano di Sasa, alla periferia tra Libano e Siria, dove vive con il marito e tre dei suoi quattro figli (il quarto è a militare), ha portato recentemente in scena “beresheet-In principio", uno spettacolo di mimo, suoni e danze realizzato con 18 giovani attori ebrei e arabi che vivono nei villaggi della Galilea settentrionale, non lontano dal suo kibbutz. Due gruppi biancovestiti si fronteggiano mimando scene ormai quotidiane da quelle parti - la guerra, il dolore, la morte - mentre una voce fuori scena scandisce frasi che non lasciano scampo: “Non c’è nessun posto sicuro”, “Con quelli non si potrà mai parlare”, “Ormai non mi fa più effetto nulla... neanche la morte”. Due attori si staccano dai rispettivi gruppi, si tolgono maschera e tunica bianca e “scoprono” che ognuno ha un volto e un vestito colorato. Anche gli altri li imitano e il palcoscenico si anima di colori trasformandosi in un grande arcobaleno, mentre la voce fuori campo grida “Mio Dio, dev’esserci una soluzione, dev’esserci una speranza”. Angelica e i suoi giovani amici hanno chiamato Compagnia dell’arcobaleno il loro gruppo, che in ottobre porterà il suo spettacolo anche in Italia: “Vogliamo testimoniare che se ciascuno riscopre la propria storia, il proprio colore, può contribuire a rendere più luminoso il luogo in cui vive, proprio come accade nell’arcobaleno. Lavorando insieme abbiamo capito che è davvero possibile essere ebreo, musulmano o cristiano amando il proprio popolo e rispettando quelli che ti stanno intorno. E che solo se le radici sono ben piantate nella terra, la pianta può fiorire anche nel deserto. Per questo l’educazione è la cosa più importante del mondo”. È ambiziosa, l’allieva di Toaff: si dice convinta che la pace non la faranno i capi di Stato né i politici, “saranno le madri, gli educatori, gli scrittori, saranno quelli che hanno il coraggio di affrontare chi urla e chi sta in silenzio, quelli che vogliono confrontarsi con chi è diverso senza rinnegare la propria storia. Come facciamo noi sul palcoscenico e nella vita”.

Sì alle pinne, no al fucile
Sono sopravvissuti alla follia omicida dei kamikaze, hanno perso un genitore o un fratello in un attentato terroristico. Cinquanta ragazzi israeliani, accompagnati da dieci studenti universitari e da due insegnanti, hanno trascorso un periodo di vacanza in una località balneare del nostro Paese. Spiaggia, gite alla scoperta delle bellezze italiane, momenti di festa e di conversazione all’interno di una convivenza all’insegna della normalità. Quella normalità che in Israele è sempre più difficile praticare. L’iniziativa si chiama “Con le pinne, senza fucile, ed occhiali” (nella foto qui sopra, il logo) ed è stata promossa per il secondo anno consecutivo dall’Ose (Organizzazione Sanitaria Ebraica - Assistenza all’infanzia) ed ha avuto il sostegno di varie organizzazioni ebraiche. “E’ un segno concreto di amicizia con il nostro popolo - spiega Giorgio Sestieri, presidente dell’Ose -. Vogliamo aiutare questi ragazzi, colpiti da un dolore così lancinante, a staccare la spina almeno per qualche giorno dalla tensione a cui sono sottoposti, e a recuperare un atteggiamento costruttivo di fronte alla vita. E crediamo che questo sia un contributo piccolo ma significativo alla costruzione di una mentalità di pace”. Alcuni sono tornati per il secondo anno consecutivo, molti tra i “debuttanti” di quest’anno si sono già prenotati per l’edizione 2004.


 

Teatro Arcobaleno Rainbow Theatre
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