I
festeggiamenti dei 60 anni di indipendenza di Israele hanno scatenato in molti
arabi israeliani una danza di fantasmi che il benessere, il progresso,
l’educazione e la libertà, acquisiti attraverso l’incontro con la cultura
occidentale, avevano ormai allontanato da tempo. L’integralismo è intorno a noi,
si insinua silenzioso attraverso le tv siriane e libanesi, attraverso gli
incontri nei movimenti giovanili. Hamas non tace. Non può tacere e passa
all’attacco...
...Noi continuiamo la nostra vita, ma
non siamo quelli di dieci o cinque anni fa. Non possiamo più essere quelli che
continuavano imperterriti a cercare il buono e il bello dopo un attentato o tre
attentati al giorno. Siamo più calmi, è vero. Ora c’è una barriera di difesa. La
chiamano il Muro dell’apartheid, il Muro della vergogna, e Hamas sfrutta il
perbenismo e l’ingenuità del mondo per giocare uno spietato avanzamento verso un
potere assoluto in cui si possa tornare indietro nel tempo e nella storia quando
le donne potevano essere abusate, i bambini sfruttati e i potenti rispettati in
nome di regole scritte. «A Yom Ha’Atzmaut, il giorno dell’indipendenza, me ne
sono andata ad Amman con le mie amiche», dice una delle ragazze della Compagnia
Namir, il gruppo teatrale degli adulti di Beresheet La’Shalom, la nostra
fondazione per educare al dialogo attraverso le arti. «Non potevo sopportare che
si festeggiasse sulle mie terre!». Shiraz è una splendida ragazza musulmana, 26
anni, laurea in sociologia all’università di Haifa. Lavora all’ospedale di Zfat,
dove sono nati tutti i miei figli e anche mio marito e lei e i suoi fratelli e
forse anche i suoi genitori. Parliamo un po’ di terre acquistate all’inizio del
secolo scorso. Parliamo della scelta della sua famiglia di trasferirsi dal
Libano in Israele cento anni fa perché i primi pionieri ebrei avevano creato
posti di lavoro. «Non mi sento israeliana, non posso sentirmi israeliana!». La
nostra conversazione è calma. Abbiamo imparato a parlare di tutto anche degli
argomenti più dolorosi. Ci sono abituata. Ormai non mi arrabbio più. Soffro, sì,
ma non mi arrabbio più. «Sai Shiraz, ho vissuto vent’anni in Italia dove sono
nata. Fino ad oggi festeggio il 2 giugno, lo scorso anno ho persino ricevuto il
riconoscimento di Cavaliere a casa dell’ambasciatore italiano a Tel Aviv. E sono
molto orgogliosa di essere un’ebrea italiana, di poter diffondere la cultura
italiana e di aver avuto la fortuna di assaporare questi due mondi così
straordinariamente ricchi di valori, di storia, di arte: il mondo ebraico e lo
spirito del Belpaese!». La conversazione è pacata. Ci sono altri ragazzi del
teatro intorno e tra loro c’è un’amicizia profonda, rispetto e affetto che siamo
riusciti a creare nonostante le avversità, con fede. Shaul, che si è congedato
dall’esercito qualche mese fa, le chiede: «Shiraz, riesci a vedere gli aspetti
positivi del tuo essere un’israeliana musulmana? Come te ci sono tanti italiani
o francesi musulmani. Puoi continuare a parlare la tua lingua, a rispettare le
tue regole, a vivere le tue tradizioni e con tutto ciò imparare ad amare il
paese in cui sei nata, in cui vivi. Puoi imparare a conoscerne gli aspetti e il
retaggio e arricchire la tua anima. Pensa alla positività che ha portato il
nostro incontro, a quante cose abbiamo acquisito gli uni dagli altri! Pensa a
come sarebbe diverso se potessimo abbattere la barriera che ci divide dall’altra
parte e collaborare, senza diffidare gli uni degli altri. Dimmi Shiraz, se ti
dicessero ora che il tuo villaggio qui in Galilea passa sotto la giurisdizione
palestinese come la vedresti?». Shiraz tace. Dal suo sguardo si capisce che non
è proprio entusiasta dell’idea. Anche i pellegrini che vengono in visita in
Terra Santa sanno vedere la differenza tra i due versanti di questa barriera che
non avremmo mai voluto avere il bisogno di costruire. Sì, siamo cambiati negli
ultimi anni. Siamo feriti, ma la formula del balsamo “per curare tutte le
ferite” è in noi da secoli. è quella che ci ha aiutato a sopravvivere.
Continueremo con pazienza a educare, a spiegare, a controinformare e a recare
gioia e respiro a chi realizza, con il nostro aiuto, che vivere in pace vale
milioni di volte di più di programmare la guerra. Quando le racconto questo
evento mia madre mi domanda con tristezza: «Come si fa a parlare a centinaia di
milioni di persone così come si parla con una Shiraz?». Senza darsi per vinti:
si inizia da Shiraz, poi lei imparerà a parlare con gli altri…