Teatro Arcobaleno Rainbow Theatre

Stampa 2004
L’amicizia impossibile tra un’insegnante di kibbutz e la «mamma» di un orfanotrofio della Cisgiordania.
Angelica, Samar e il teatro dei miracoli.
di Goffredo Buccini
Il Corriere della Sera - 2.11.2004

Angelica, Samar e il teatro dei miracoli.
Bambini arabi ed ebrei fatti recitare insieme: così è nata una tregua sulle barricate
Goffredo Buccini

BETANIA (Cisgiordania) - A dividere il piccolo teatro di kibbutz dalla casa d’accoglienza di Betania ci sono molti chilometri d’autostrada, il lago di Tiberiade, poi la valle del Giordano. E i cecchini. E il muro di Sharon. E i doppi giochi di Arafat. E i checkpoint che ingabbiano la Cisgiordania. E l’odio della seconda Intifada. E, alla fine, la Storia con la esse maiuscola. Angelica e Samar sono riuscite ad attraversare tutto questo con un abbraccio che dura da due anni.

Tra i frutteti e le torrette militari nel nord di Israele, al confine col Libano degli hezbollah, in quel piccolo teatro che si chiama Arcobaleno, Angelica Calò Livnè insegna a recitare la pace a ragazzini ebrei, arabi, circassi, drusi, cristiani, musulmani; prega a ogni attentato, a ogni rappresaglia, «mio Dio, scaccia l’odio, facci rimanere quello che siamo». Dice: «Cercavo da tanto un’amica palestinese, una come me. Mi hanno parlato di lei, un giorno le ho telefonato, l’ho incontrata: anche tu devi assolutamente incontrare Samar, è speciale». Sommersa dal mucchio selvaggio dei suoi bambini (lei li chiama «i miei figli») all’orfanotrofio Jeel El Amal di Betania, che ha ereditato dai genitori e ingrandito in un rifugio ancora più temerario - Lazarus Home - in cui si nascondono pure ragazze madri che la società palestinese condannerebbe senz’appello, Samar Sahhar è speciale davvero. Sorride: «Angelica è diventata mia amica, poi mia sorella. Dio ci ha fatte uguali». Questa è la storia di un’amicizia quasi vietata dalla ragion politica, la storia con la esse minuscola di un’israeliana e una palestinese che forse Dio ha fatto davvero uguali ma che parrebbero quasi opposte: minuta e tutta nervi Angelica, boccoli neri e lunghe ciglia che s’inumidiscono per un nonnulla; quadrata e inaffondabile Samar, capelli corti e braccia da camallo della fede. Solo con più attenzione si coglie quel loro sguardo, identico, e allora si capisce che quando si chiamano «sorelle» non è tanto per dire.

Mercoledì scorso si sono ritrovate a Roma, al teatro Vittoria, davanti a seicento ragazzi di sette licei. Prima dello spettacolo che Angelica sta portando in giro per l’Italia, «beresheet, In principio», coi suoi diciotto giovanissimi attori che danzano coperti da maschere bianche e recitano frasi come «non c’è nessun posto sicuro! Dev’esserci una soluzione... una speranza!», Samar è salita sul palco. Nemmeno Angelica se l’aspettava. Si sono abbracciate così, davanti ai ragazzi romani che non capivano, poi Samar ha detto che «se tutto il mondo vedrà questo spettacolo tutti sapranno che la pace si può fare». Alla fine, prima di esplodere in un lungo applauso, gli studenti sono rimasti tre minuti senza parole.

La piccola storia testarda di Angelica e Samar è invece piena di parole. Con le parole Angelica - una romana di 47 anni che appena ragazza è andata a vivere a Sasa, uno degli ultimi kibbutz ancora fedeli agli ideali socialisti delle origini - ha insegnato a Batya e Nemi, Amal e Sharif e a tutti gli altri allievi del laboratorio teatrale di Kerem Ben Zimra che si può fare qualcosa, «che non basta piangere davanti alla televisione». L’idea di «beresheet», quelle maschere bianche che cadono sul palco «svelando la bellezza di ogni diversità», accompagnate dalle canzoni di Noah («è finita, è tutto passato, toccheremo il sogno»), è nata dai ragazzi, lavorando per sei mesi con loro. «Quando ne parlai la prima volta al consiglio regionale dell’Alta Galilea, quando dissi che volevo anche ragazzi arabi, mi dissero, "beh, l’idea è buona, però con l’Intifada, capisci, politicamente, non è il caso, gli arabi lasciali perdere". Risposi: "O loro o niente". Ci è andata bene». Uno dei suoi attori, Sharif Balut, un ragazzone arabo del villaggio di Fassuta, ha preso così sul serio il copione che è riuscito a far scoppiare la pace, quella vera, tra i suoi compaesani e i ragazzi ebrei di Elkosh: «Eravamo alla guerra tra bande, ma sulla loro barricata ho notato Ofri - racconta - che un giorno era venuto a vedermi a teatro. Mi sono fatto avanti. Gli ho detto: ti ricordi di me, amico? Si ricordava, sì. E tutti assieme abbiamo fatto la sulha , che significa riconciliazione sia in arabo che in ebraico».

Anche Samar, nei due rifugi gemelli ai lati di una polverosa strada di Betania, lavora con le parole: parole da mamma o da sorella maggiore, per i 70 bambini di Jeel El Amal («Generazione della speranza»), le 33 bambine di Lazarus Home e le donne che, nascoste all’orfanotrofio, trovano riparo dai loro guai - in questo momento sono tre, una prostituta, una appena uscita dal manicomio e una che ha ucciso il suo stupratore. Samar ha 42 anni, è cattolica, la prima pietra del primo rifugio è stata messa da Alice, sua madre, tanti anni fa. «Sono consacrata con i Memores Domini», dice. Non ha una famiglia sua. «Ma i miei figli sono questi». Abdallah, 10 anni, moncherini al posto delle mani, portato lì che non parlava neppure («ora è il più bravo della quarta elementare») le ha chiesto: «Mamma, come fanno le mucche e le pecore a mangiare, se c’è la guerra?». Tutti assieme, coi bambini raccolti nei campi profughi di Ramallah, di Betlemme, di Tulkarem, hanno deciso che mucche e pecore devono riprendere a mangiare, quindi la guerra deve finire. Samar ci mette del suo: «Un orfano non ha nessuno, quindi i ragazzi della strada sono tutti abili e arruolati per l’Intifada. I miei no. Non voglio che i miei figli muoiano o uccidano», sbotta.

Contro reclutatori e Autorità palestinese combatte così la sua invisibile guerra, pagando dazio. Ha aperto una panetteria in paese per raccogliere fondi, ma da un anno non le allacciano la corrente elettrica. La gente della strada ha firmato una petizione per chiudere l’orfanotrofio «che nasconde le donnacce». Se lei mollasse, «le donnacce» verrebbero probabilmente lapidate. Quindi tiene duro. E stringe a sé gli ultimi piccoli arrivati, Safiria, 6 anni, trovata in un pollaio piena d’ustioni, Nanni, 7 anni, ch’era incatenato in una grotta a Betlemme. Coccola Nahla, 14, che ha una lunga cicatrice sulla fronte ma è un cannone in scienze e va alle manifestazioni di Peace Now. «Cantiamo insieme, habibti, amori miei», dice. Dal refettorio si alzano voci di cristallo, «Ya raba salam/ imnan biladana salam, Dio della pace/ dà la pace alla nostra terra», e arrivano fino alla lavanderia governata da Alia, la donna che ha ucciso il suo violentatore. I parenti di lui la cercano da quando è uscita di galera. Ha una faccia incartapecorita. Dice: «Sono brava a lavare, sai? Però ho sempre mal di gambe, mal di tutto». Samar le accarezza una mano, «passerà, vedrai, passerà tutto».

Aspettando che tutto passi, Samar e Angelica hanno riempito questi due anni d’amicizia. Il primo incontro a Gerusalemme est, il secondo al Muro del Pianto. Insieme hanno girato scuole e università d’Italia, preso premi, partecipato a dibattiti dal titolo «La sfida di due donne». L’anno scorso «Excalibur» ha dedicato loro venti minuti di speciale. Presto due ragazzi dell’orfanotrofio si aggregheranno alla compagnia dell’Arcobaleno. Ma non è sempre facile. All’università di Bari sono andate a dire «siamo due amiche, non Sharon e Arafat» e qualcuno s’è sdegnato: «Volete scherzare? Non basta un’amicizia per fermare la guerra». Per tipi simili Samar ha una storiella: «Un uomo vide un uccellino steso sul dorso. "Perché stai così?", gli chiese. E quello: "Ho sentito che oggi Dio scaglierà il cielo sulla terra, sto cercando di proteggere la terra". L’uomo rise: "Sul serio? Cerchi di salvare la terra con le tue minuscole zampette?". L’uccellino rispose: "Io voglio fare del mio meglio!"».


 

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