Passeggiando per il kibbutz…
DIARIO DI BORDO DA UN PELLEGRINAGGIO IN TERRA SANTA.
di
Luca Buccheri
Aprile,
2005
Passeggiando per il kibbutz…
Siamo al kibbutz di Sasa (che in ebraico significa “la parte alta
della spiga”), nell’Alta Galilea, al confine col Libano. Da una
bella terrazza panoramica possiamo vedere la Linea blu entro la
quale nel 2000 si è ritirato l’esercito israeliano. Ci accompagna
nella nostra passeggiata vespertina, rincorsi dalle fresche folate
del vento primaverile di montagna (siamo a 1.000 metri), Angelica
Calò Livnè, un’ebrea romana che qui è venuta a vivere da quando
aveva 20 anni. Oltre il piccolo moshav (un tipico villaggio
israeliano a impostazione cooperativistica) dai tetti rossi, ci
mostra quello che circa 30 anni fa è stato il primo confine che fu
“aperto” tra Israele e Libano: attraverso di esso accettavano le
persone ferite o quelle che dovevano andare in ospedale.
«Io stessa – ci racconta Angelica con grande
energia – ho partorito il primo dei miei 4 figli, 22 anni fa, in una
camera insieme a due donne libanesi (che non avevano gli ospedali).
Poi, purtroppo, quando hanno iniziato gli Hezbollah (la milizia
sciita libanese, ndr.) abbiamo dovuto chiudere un’altra volta il
confine».
«Si dice che gli Hezbollah, dopo la nostra uscita
dal Libano, – continua la nostra amica con una venatura di
sorridente amarezza – abbiano preparato, da qui fino al mare
Mediterraneo e dall’altra parte fino al monte Hermon, già tutti i
missili pronti su di noi per poterci attaccare. Noi speriamo di
no…».
La situazione però adesso sembra tranquilla,
anche dopo l’assassinio del premier libanese Hariri (lo scorso 18
febbraio) e le successive accuse alla Siria. Però alcuni anni fa è
successo che alcuni Hezbollah hanno scavalcato il confine ed hanno
cominciato a sparare all’impazzata su tutti quelli che passavano,
colpendo tante persone… Per questo il confine è controllatissimo:
c’è una vigilanza continua lungo tutto questo confine. C’è un
recinto elettronico che al semplice tocco fa scattare l’allarme e
l’immediato arrivo delle pattuglie.
Dietro di noi abbiamo il monte Meron, 1.200 metri s.l.m., il
secondo più alto monte di Israele, dopo l’Hermon. Tra queste verdi
montagne ancora si trovano reperti archeologici antichissimi,
risalenti all’età della pietra.
Malgrado la cronica mancanza d’acqua nel kibbutz
si riescono a coltivare dei piccoli frutteti (ciliegie, kiwi e
mele). È talmente grave il problema dell’acqua in Israele che si
educano i bambini a come lavarsi i denti, a chiudere il rubinetto
mentre si sciacquano i denti.
Il questo paese ci sono delle attenzioni molto particolari, per
essere un paese in guerra da sempre; ad esempio, passando davanti a
dei fiori rossi Angelica ci fa notare che non sono i comuni
papaveri, ma degli anemoni (dei fiori che normalmente vengono
venduti). Eppure nessuno li coglie perché in Israele è vietato
raccogliere fiori, a causa della mancanza d’acqua. «Qui c’è un
rispetto totale per i fiori, per gli alberi: siamo forse l’unico
popolo al mondo che ha una festa per gli alberi (il Tu bi-shevat, il
Capodanno degli alberi)»; se pensiamo che qui una volta era una
terra brulla, un deserto di rocce, ed è stato trasformato in un vero
e proprio giardino con il sudore della fronte di tanti, capiamo la
grande importanza che possono avere gli alberi e la natura per la
gente del posto.
Passiamo davanti alle beit-ieladim, le case di
bambini, che occupano la parte centrale del kibbutz; infatti esso è
fatto a cerchi concentrici e la parte più curata e protetta è quella
dei bambini. Una volta i bambini dormivano tutti qui, assistiti a
turno dalle mamme; adesso le cose sono cambiate, perché non è
possibile che un bambino si svegli di notte e non trovi la sua mamma
ma ogni volta una donna diversa. Adesso stanno solo di giorno, fino
alle 16.00; vanno a scuola, fanno merenda, giocano… e poi tornano a
casa.
Questi monti dell’Alta Galilea, da Zfat al monte
Meron, sono anche il luogo dove è nata la mistica ebraica, la
Qabbalah; sono posti pieni di tombe di rabbini del I-II sec. a.C.
«Non mi stupisco che sia nata qua – ci confessa Angelica con un
pizzico di orgoglio – perché questo è un posto molto particolare…
molto “vicino a Dio”, molto puro, a contatto con la natura. La
Galilea è un posto davvero speciale!».
Passando poi ad un argomento decisamente diverso, Angelica ci
mostra una piccola industria, dove i kibbutzim (gli abitanti del
kibbutz) producono vetri e giubbotti antiproiettili. Proseguendo
nella nostra passeggiata, notiamo delle sirene montate sui tetti
delle case: «Sono sirene di avvertimento – ci avverte la nostra
guida – utilizzate quando ci sono stati gli attacchi di Saddam
[Hussein, ndr.] nel 1991». La nostra curiosità cresce, ma si capisce
che non ha voglia di soffermarsi troppo sull’argomento: ogni 3 case
c’è un rifugio antiatomico, nel quale si rifugiavano le famiglie ad
ogni lancio di Scud iracheni durante la prima Guerra del Golfo.
Il kibbutz è composto da circa 400 persone, di
cui 200 membri effettivi, 100 bambini (che diventano membri dopo
aver fatto il servizio militare) e 100 ospiti (che vengono qui per
lavorare, militari, ecc.). Tutti i membri mettono in una cassa
comune gli stipendi e condividono quotidianamente la colazione e il
pranzo, in una grande sala comunitaria dove, al termine del nostro
tour, siamo invitati a cena dalla cordiale famiglia di Angelica.
Non stupisce che in questo contesto, fatto di
relazioni umane profonde e di semplicità di vita, sia nato il
progetto educativo il Teatro dell’arcobaleno per ragazzi israeliani
e palestinesi, che Angelica attraverso il teatro fa lavorare insieme
per costruire un possibile futuro di pace per Israele e per la
Palestina.
(L. Buccheri)
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