Due donne
di pace e speranza.
LA STORIA DI DUE MADRI ED EDUCATRICI IN ISRAELE-PALESTINA.
di
Luca Buccheri
Febbraio,
2005
Due donne
di pace e speranza.
Legate da profonda amicizia, ma divise da un muro alto 9 metri,
una donna israeliana ed una palestinese stanno sfidando l’odio e il
pregiudizio per costruire “dal basso” la pace in Terra Santa.
C’è un altro modo di costruire la pace tra due
popoli da 50 anni in conflitto. Accanto a quello delle firme, dei
trattati e dei protocolli ufficiali, c’è un modo silenzioso e
sotterraneo di operare attraverso persone che spendono la vita per
costruire silenziosamente e “dal basso” quelle trame di amicizia, di
solidarietà e di convivenza – in altre parole una cultura di pace e
di speranza – che sole possono garantire la tenuta di qualsiasi
accordo di alto livello. Samàr Sahhar, insegnante cristiana
palestinese, e Angelica Calò Livnè, ebrea israeliana, sono due donne
e due madri impegnate a costruire concretamente speranza nei loro
travagliati paesi, attraverso la scelta educativa delle giovani
generazioni.
La prima ha 42 anni, è cattolica ed è direttrice
di un orfanotrofio a Betania (alle porte di Gerusalemme), che ospita
un centinaio di bambini orfani e abbandonati o di ragazze in
difficoltà; la seconda è una ebrea romana di 47 anni, trasferita a
20 anni in Israele – dove si è sposata ed è andata a vivere in un
kibbutz a Sasa (ai confini col Libano) –, che ha fondato la
“Compagnia dell’Arcobaleno”, una scuola teatrale in cui ragazzi
ebrei, arabi musulmani e cristiani, attraverso il linguaggio
universale dell’arte, imparano a vivere, crescere insieme e
comunicare la speranza.
La storia di Samàr
«Non è un discorso politico il nostro – esordisce energicamente
Samàr, invitata a Modena ad una serata di testimonianza insieme alla
sua amica Angelica –; non stiamo qui per decidere di chi è la colpa;
stiamo qui per un motivo bello, di amicizia e di pace. Proviamo a
cambiare questo mondo, il nostro in Terra Santa e ovunque. Siamo due
mamme, due insegnanti molto preoccupate per il futuro dei nostri
figli».
Ed in effetti Samàr è “mamma” di oltre 70 bambini
e ragazzi palestinesi (quasi tutti musulmani) che ospita nella
struttura che ha chiamato Jeel al Amal (“generazione della
speranza”), nonché di oltre 30 ragazze accolte nella casa di
accoglienza femminile (unica in Palestina!) chiamata Lazarus Home,
quasi ad indicare il desiderio di una nuova vita per queste piccole
donne abbandonate o sfuggite alla violenza. Tutto è cominciato nel
1972, con i primi 10 bambini, ed è avvenuto senza l’aiuto del
governo, ma attraverso il lavoro dei volontari.
«Shalom, salam, pace – continua Samàr, leggendo
un messaggio scritto in italiano –. Vogliamo accendere una candela
per quest’anno. C’è sempre speranza quando la gente riesce a sentire
ambedue le parti e a vedere la sofferenza dell’altra parte.
Nonostante le difficoltà, ho visto gente che è stata capace di
costruire ponti di comprensione e con i loro piccoli gesti di
amicizia sono riusciti a sollevare molta tristezza che c’è nel
mondo. C’è un proverbio in arabo che dice: “È meglio accendere un
lumino che maledire le tenebre”. Il perdono e la riconciliazione
sono le parole più dolci di Dio e le più salutari per l’anima».
Negli ultimi tempi, Samàr ha pensato di aprire
anche un panificio a Betania, per finanziare la sua opera e dare
lavoro ad alcune famiglie della zona, visto che la vera piaga della
Palestina è la disoccupazione. Così è avvenuta un’altra storia di
ordinario miracolo di fede e volontà. Per acquistare i macchinari
del panificio Samàr ha ottenuto un prestito di 75.000 dollari, senza
avere uno spicciolo in tasca. Il panificio, inoltre, doveva sorgere
in una delle vie più periferiche e abbandonate della cittadina
palestinese che ricorda la risurrezione di Lazzaro, per cui
l’investimento sembrava fallimentare già in partenza. Ma, in seguito
alla costruzione del muro di divisione da parte del governo
israeliano (che ha tagliato in due la città), la via dove stava
sorgendo il panificio è diventata la strada principale di Betania!
Qualcuno allora l’ha scherzosamente accusata di essersi messa
d’accordo con Sharon, ma lei ha risposto: «No, ma forse il mio Dio è
più potente di Sharon! Il nostro Gesù è più potente! È Gesù che ama
questi bambini e lui sa perché ho fatto questo panificio».
Adesso Samàr ha ancora in cantiere una pizzeria
italiana e un progetto chiamato “pane per la pace”, che consiste nel
far venire alcune donne israeliane di Gerusalemme a fare il pane con
le donne palestinesi, a spezzare il pane con loro, a diventare loro
“compagne” (cum-panis), anche solo per un giorno. Ecco come Samàr
vuole costruire, anche in tempi difficili, dei possibili ponti di
convivenza tra due popoli separati da un muro.
«Penso che se ogni palestinese potesse avere un
amico o un’amica ebrea, questa guerra potrebbe finire. Sono persone
singole quelle che hanno segnato il bene la vita degli altri, come
una giovane ragazza israeliana che è morta in un attacco suicida e i
suoi genitori hanno deciso di donare prontamente gli organi della
loro figlia per poter aiutare una ragazza palestinese che aveva
bisogno di una operazione urgente. Entrambe le famiglie erano a
conoscenza dell’azione che stavano compiendo. Il loro messaggio
voleva essere: la vita della nostra figlia ebrea è preziosa come la
vita della vostra figlia palestinese».
Poi, rivolgendosi ad Angelica in ebraico, legge
una commovente lettera: «Cara Angelica, noi siamo qua, consolidiamo
il bisogno della pace… Con speranza e fede noi ce la faremo! Come
due mamme, come due amiche… Magari Dio ci darà un periodo di pace e
di amore. Che Dio ci dia la forza di costruire un mondo migliore e
un futuro migliore per i nostri figli. Ogni volta che guarderai nel
cielo, per favore ricordati che da qualche parte hai un’amica e una
benedizione».
Che Samàr e Angelica siano davvero amiche lo
dimostra anche il messaggio che Samàr ha scritto in 5 lingue sul
muro di divisione alto 9 metri che passa da Betania: «Angelica
l’amicizia non si può dividere» (P.S.: la gente che legge pensa –
ironia delle vicende tragiche – che questa “Angelica” sia una sahid,
una kamikaze!!!).
La storia di Angelica
«Da quando sono arrivata in Israele – racconta Angelica col suo
accento spiccatamente romano – ho cominciato a lavorare
nell’educazione. Perché vedete, ognuno di noi nella vita cerca per
quale motivo è venuto al mondo. Io ho capito che l’educazione doveva
essere la mia missione. Ho cominciato a insegnare teatro ed ho
voluto creare un teatro di ragazzi dove stessero insieme ragazzi
ebrei e arabi, di tutti i tipi. Quando ho esposto l’idea alla
regione (la Galilea) mi hanno risposto che era una bella idea, ma
era meglio realizzarla senza gli arabi. Ma senza gli arabi veniva
meno l’idea in se stessa, perché quando riesci a mettere insieme
ragazzi, giovani, adulti, in un'altra dimensione, e li fai conoscere
meglio attraverso una lingua comune che non è solo verbale, ma è
anche linguaggio del corpo, dell’immaginazione, della fantasia, le
persone si guardano con altri occhi e riesci a vedere le cose in un
modo diverso».
«È praticamente successo un miracolo – continua
il suo racconto con crescente intensità – perché questo teatro ha
praticamente cambiato il volto delle persone in Galilea. Oggi quando
si parla di questo teatro non è più solamente un teatro, ma è
qualcosa che ha cambiato veramente il modo di vivere e di pensare
delle persone». È il caso di ragazzi ebrei religiosi (con la kippah)
del teatro che hanno scoperto di essere “fratelli” di ragazzi arabi
e lo comunicano ai loro meravigliati genitori.
“beresheet” è il titolo dello spettacolo teatrale
messo in scena da Angelica e dalla sua “Compagnia
dell’Arcobaleno”[1] e si riferisce alla prima parola della Genesi:
«In principio Dio creò il cielo e la terra…». Siamo noi uomini –
spiega Angelica in modo sempre più appassionato – le uniche creature
che possono decidere se collaborare alla creazione di Dio
elaborando, trasformando le cose, il pane in farina e poi in pane
oppure distruggere tutto. «Così cominciamo a scrivere questo
spettacolo e decidiamo di farlo senza parole, con delle maschere sul
volto. Poi alla fine i ragazzi propongono di togliersi la maschera,
infrangendo una convenzione teatrale: “Può darsi – dicono – che se
infrangiamo questa convenzione, qualcosa cambierà anche nel mondo”.
Adesso si sta creando un vero movimento che si chiama “mask off”
(giù la maschera!) e i ragazzi hanno cominciato ad andare nei
villaggi circostanti ad insegnare teatro, questo tipo di teatro,
cioè la propria storia». Di come è possibile superare la paura
dell’altro, del vicino-nemico e scoprire che ha i tuoi stessi sogni
e speranze.
«Quando questi ragazzi arrivano [qui in Italia]
davanti ad una platea con 200, 700, 1200 ragazzi, succedono delle
cose straordinarie; alla fine i ragazzi, ancora a piedi nudi, si
siedono per terra e rispondono alle domande… Insomma per questi
ragazzi spettatori è come se si aprisse il sipario e vedessero
un’altra vita: “Io fino ad ora mi sono preoccupato del computer o
della scarpa ultimo modello e qui ho davanti 20 ragazzi ebrei,
cristiani, musulmani che vengono da un posto dove la guerra esiste
da sempre, dove ogni tre case c’è un rifugio…”; e improvvisamente si
rendono conto di tutto questo e ci dicono “grazie”, perché adesso
amano di più la vita. Quando tu fai vedere il valore così prezioso
della vita, tutte le persone che sono vicino a te vengono contagiate
da quel valore prezioso che è la vita».
«Oggi i figli diventano così grandi che fanno quasi paura –
prosegue Angelica, pensando ai suoi quattro figli maschi (due
attualmente nell’esercito) –. Uno di loro, che è infermiere, è
venuto a casa l’altro giorno descrivendo cosa si fa in caso di
attentato: se, arrivati nel luogo dell’esplosione, c’è tutta gente
ferita intorno e anche il kamikaze è ferito, e quest’ultimo ha
un’emorragia peggiore di tutti gli altri, bisogna soccorrere prima
lui. Alla mia reazione istintiva e “antieducativa” mi ha risposto:
“Mamma, noi siamo addestrati per questo… solo Uno, lassù, può
prendersi la vita delle persone”».
«Un giorno – continua scavando nei ricordi – una
ragazza, che aveva perso due fratelli in un attentato mi ha chiesto
come facessi a fare teatro con ragazzi arabi e ad avere un’amica
palestinese. Le ho risposto, con grande sofferenza: “Proprio per
questo faccio il teatro e ho un’amica palestinese, perché ci sono
delle persone dall’altra parte con le quali dobbiamo parlare,
consolidare amicizie; solo così possiamo vincere tutte quelle forze
del male che stanno annebbiando la vostra adolescenza, l’infanzia
dei bambini, la speranza di un futuro, la voglia di vivere”».
Concludendo, Angelica ricorda un altro episodio
che l’ha confermata nella scelta di continuare la sua strada: «Un
giorno incontro in una scuola araba dove insegnavo un ragazzo
quattordicenne con al collo un ciondolino. Gli chiedo che cos’è
quell’effige e lui mi risponde che è un sahid (un “martire”) e che
il suo sogno è morire per la Palestina. Gli ho detto: “Amore mio, tu
c’hai 14 anni, tu non puoi morire per la Palestina; tu devi vivere
per la Palestina. Tu devi vivere per la Palestina e tutti noi
dobbiamo vivere per la Palestina e per Israele!”».
Luca Buccheri
[1] Cf.
http://www.concertodisogni.com/angelica.