BERESHEET LA SHALOM TEATRO ARCOBALENO

Stampa 2009

 

 
  


Rassegna «Diario dalla Galilea»

di Massimiliano Smeriglio

Diario dalla Galilea/1 - «Imparare cucinando»
di Massimiliano Smeriglio

Sasa è un microcosmo nel nord di Israele, regione Galilea. E’ un luogo magico per molte ragioni, un kibbuz che intreccia storia e arte nella sua biografia. Cielo terso e freddo pungente, 900 metri sul livello del mare, silenzio assoluto fra le montagne. Intorno, le terre della Siria a 30 kilometri, ancora 30 i kilometri per arrivare al mare, solo due quelli di distanza dal Libano. A indicarci le distanze con il dito puntato agli orizzonti Edna Calò, che nel Kibbuz di Sasa ci vive da ormai vent’anni. Scrittrice, regista, romana di nascita, israeliana di famiglia, è tornata nei luoghi d’origine con in tasca ambiziosi progetti da realizzare. Operatrice di pace, la chiamano, per il suo impegno nell’educazione dei giovani musulmani, ebrei, cristiani di queste parti alla convivenza e al dialogo attraverso il teatro e l’arte. Ad ascoltare le sue suggestioni oggi c’è un gruppo di 20 ragazzi allievi della Provincia di Roma. Sono cuochi e operatori di sala della scuola di gastronomia di Marino, portati qui dall’Assessore provinciale al lavoro e alla formazione Massimiliano Smeriglio, con il progetto “Imparare in Amicizia – Beresheet inizia in Galilea”. Una settimana di formazione sulla cucina medio-orientale, e di incontri per imparare la forza della condivisione e del confronto con mondi altri. “Sasa è un esperimento felice che dura da un secolo e che al momento regge alla prova del tempo”, ci spiega Edna, che sarà la nostra padrona di casa per l’intera settimana. “Uno degli ultimi 80 kibbuz rimasti, su un territorio che fino a 20 anni fa ne contava quasi 200; siamo una novantina di nuclei familiari, 450 persone circa”. A differenza degli altri kibbuz israeliani, nati da insediamenti di ebrei polacchi, russi o tedeschi, quello di Sasa è stato fondato da ebrei americani. Un posto aperto, quindi, agli influssi della cultura occidentale, e sensibile alle suggestioni dell’arte in tutte le sue forme. Qui fin da bambini si studia musica, teatro, ceramica. Un luogo che nasce con l’idea forte della comunità e dell’uguaglianza, il sogno utopico del socialismo applicato, ma a numero chiuso. Nella comunità tutti hanno in egual misura, secondo uno schema di marxiana memoria; si mangia sempre tutti insieme, e ci si confronta su tutte le decisioni importanti in una sorta di assemblea permanente; l’accettazione di nuovi membri è sempre circoscritta ai gruppi parentali che lo abitano. E si capisce anche il perché di questa “selezione all’ingresso”: il kibbuz copre infatti ai suoi giovani tutte le spese degli studi, in cambio di ore di lavoro. Una sorta di borsa di studio del comune, un welfare state basato sul concetto di comunità allargata.

Anche le case sono tutte uguali qui. Pietra che arriva da Gerusalemme, che protegge dal freddo invernale e dal caldo estivo. In una di queste strutture espone le sue sculture Varda Yatom; occhi azzurri intensi, sessant’anni, originaria di Tel Aviv e a Sasa ormai dagli anni ‘70, tra le dieci migliori ceramiste al mondo. Ha 5 figli maschi Varda, e come molte madri israeliane vive il conflitto drammatico tra l’appartenenza e il dovere del servizio militare, che in Israele è obbligatorio per uomini e donne, e la sua opposizione alla guerra e alla cultura della morte. In fondo le contraddizioni che attraversano Israele oggi si possono leggere anche così, tra le pieghe degli stati d’animo di Varda e delle sue opere, alla ricerca di un continuo equilibrio fra la paura e la speranza, sospesa tra rassegnazione, mista ad una ostinata volontà di resistenza. “L’arte mi permette di scacciare le paure”, ci ha detto. “Come quando hai un dolore in un punto del corpo, e spingi forte fino a farlo uscire allo scoperto. Questa è l’arte per me”.
27 novembre 2009  http://www.unita.it/news/mondo/91889/diario_dalla_galilea_imparare_cucinando

Diario dalla Galilea/2 -
di Massimiliano Smeriglio

Omer ha diciotto anni e viene dal kibbuz Neve Shalom, l’unico in Israele in cui convivono ebrei e musulmani. Ha un corpo da atleta e la passione per la musica e la fotografia; almeno una volta alla settimana corre nei boschi vicino al kibbuz di Sasa. Ha finito gli studi per ora, e come molti ragazzi che abitano in Israele, fa il suo anno di volontariato. C’era anche lui oggi a condurre le attività della giornata: gita a piedi sulla cima del monte Meron, riserva naturale di 11 mila ettari e un panorama che va dal lago Tiberiade al Golan. Il sentiero da percorrere si chiama “la strada di Israele” e sui massi usati per indicare la via ci sono tre colori: il verde, come il colore degli alberi della parte nord della Galilea, rigogliosa e ricca; il giallo, come il deserto del profondo sud. Il blu, che è il colore dell’acqua. Omer è uno dei 9 ragazzi della fondazione Beresheet la Shalom, di Edna Calò.

Al momento sono 5 arabi e 4 ebrei, che collaborano come volontari per un anno, quello dopo la fine della scuola. Hanno 18 anni, e come tutti i loro coetanei, possono scegliere di prendersi 12 mesi per decidere cosa fare da grandi. Vivono e lavorano insieme ogni giorno. Per quelli di loro che sono ebrei, questo periodo precede il servizio militare; per gli arabi invece si tratta di una pausa prima di iniziare gli studi universitari. Jamil per esempio è un arabo cristiano. I suoi genitori sono molto contenti che sia andato via e che viva con quelli della fondazione, perché ultimamente nel villaggio girava troppa droga. Avri invece viene da Gerusalemme ed è un ebreo praticante. Durante la festa dello Shabbat, così, lui non può partecipare alle attività della giornata, ma solo guardare. La fondazione vive e opera da 8 anni. “Io insegnavo teatro nelle scuole, quindi lavoravo già con gli adolescenti”, ci racconta Edna. “Vedi, impari a convivere con la paura, ma io sentivo il bisogno di fare qualcosa che potesse cambiare il mondo, di fare qualcosa per far conoscere e dialogare ragazzi di culture diverse”.

La pace la puoi praticare a partire dalle piccole cose, questo ripete sempre. E sul campo lei ha scoperto la forza dei giovani. “Quando li metti insieme, ti accorgi che dopo poco cadono tutte le barriere”. E il loro modo può diventare un esempio per quelli dei villaggi da dove arrivano. Un marketing virale applicato alla vita. Così, in questi 8 anni, le attività della fondazione si sono moltiplicate. Oggi Omer, Jamil, Adi e gli altri insegnano protezione ambientale, teatro, arte e balli ai ragazzi di un villaggio Druso e a quelli di Sasa, lavorano in un villaggio musulmano e in una ludoteca, oltre a fare teatro con il “teatro dell’Arcobaleno”, altra invenzione di Edna. Hanno una squadra di calcio e un programma alla radio. Hanno imparato anche loro a rispettare le differenze e ad aiutarsi. “Un po’ di tempo fa abbiamo conosciuto un ragazzo di 19 anni druso, che ha scoperto di essere omosessuale e ha deciso di dirlo in famiglia. Il padre gli ha ordinato di sposarsi, ma lui si è rifiutato ed è venuto da noi. Lo abbiamo aiutato a scrivere una lettera ai genitori per spiegargli cosa sentiva e il perché delle sue scelte. Lo hanno picchiato e allontanato da casa. Ha vissuto qui con noi per 3 mesi”, ci dice Edna. “Oggi l’abbiamo sentito; è felice e vive e lavora a Eilat”.

Tutto sa di armonia e pace sul monte Meron, tranne i colpi vicinissimi dell’artiglieria israeliana che prova l’efficacia dei pezzi dopo un periodo di piogge. Sono quei tonfi a ricordarci che le cose sono un po’ più difficili di come ci appaiono. Anche se il gioco sulla relatività dei punti di vista che i giovani musulmani ed ebrei hanno proposto ai nostri ragazzi della scuola di Marino oggi è la chiave giusta per interpretare il futuro: una storia a fumetti su tanti fogli, per imparare a guardare la stessa scena da angolazioni diverse. Un batuffolo di ovatta che fa sentire più distanti le voci delle armi.
29 novembre 2009 http://www.unita.it/news/91936/diario_dalla_galilea__2

Diario dalla Galilea/3 -
di Massimiliano Smeriglio

La città di Zfat è famosa per tanti motivi. Intanto, perché da qui ha avuto inizio la corrente mistica della kabala. Il principio di fondo è semplicissimo: è il bene che può cambiare il mondo. Per noi, per tutti quelli che la religione la studiano per la filosofia, alcuni precetti sono semplicemente etica, etica di vita. E la forza della kabala sta nel suo significato più ancestrale: la ricomposizione in un luogo di energie disperse. Zfat è anche città degli artisti, che popolano i suoi vicoli di botteghe, di pitture e acquarelli. Passeggiando scopri una città densa di spiritualità: case, sinagoghe e la storia che respira tra le mura. Il suono di un corno antico che è una benedizione dalla casa antica di Joseph Caro, rabbino capo che ha scritto lo Sholhan Aruch, la “Tavola apparecchiata”, raccolta di tutte le leggi della Bibbia. Qui vivono moltissimi ebrei ortodossi. Riccioli lunghi dietro le orecchie e abbigliamento tradizionale, ne incrociamo tantissimi. Un luogo di diaspore ricomposte e ricominciate. Anche il Presidente palestinese Abu Mazen ha la sua casa di famiglia qui, dice spesso che la pace verrà quando potrà tornare nella sua città natale abbandonata nel 1948.

Diaspore che chiamano diaspore. Come quella della popolazione caucasica dei Cirkassi. Ci spiega la loro storia un insegnante del villaggio, che ci accoglie vestito con gli abiti tradizionali. Mille anime, dall’altra parte del Monte Meron, sempre confine con il Libano. In questo fazzoletto di terra resistono due piccole comunità. Cristiani nel 300 dc, musulmani dal 600, contesi tra Bisanzio e gli ottomani, combattuti e vinti dai russi che ne hanno massacrato il 60% della popolazione per poi disperderli nei luoghi più lontani dell’impero. Comunità sconfitte, ma non umiliate. Una diaspora ancora in corso di oltre undici milioni di persone sparse tra l’Asia, il medio oriente ed il resto del mondo. Una lingua antichissima con un alfabeto di sessantaquattro lettere. Al confine tra il Libano e Israele questo popolo guerriero oggi vive in pace in terra ebraica, da musulmano che adora ancora la madonna, attaccata alla parete, in omaggio al più incredibile dei sincretismi.

Ma la diaspora che non ti aspetti è quella dei nostri ragazzi di Marino alle prese con una esperienza che li proietta in luoghi e vicende assai lontane dal loro vissuto quotidiano. Prendi Maira, per esempio. Pensava che il suo primo volo aereo sarebbe stato per la Spagna, destinazione Barcellona. E invece si ritrova a gestire con i suoi 17 anni una realtà complessa come quella che vive oggi questa parte del mondo. Eric di anni ne ha 16 anni e studia per diventare chef; ad aprile è andato come volontario insieme ad alcuni suoi compagni a Coppito, per cucinare nelle tendopoli. Ha imparato in questi giorni a salutare in ebraico. Enrico in questi giorni ha scoperto il fascino delle donne medio-orientali, e con i ragazzi cirkassi si è cimentato nei loro balli tradizionali. Poi c’è Luca, e Riccardo, e Azzurra. E tutti gli altri. Sono un concentrato di energia e di potenzialità inespressi, compressi spesso da luoghi comuni e confini che rischiano di spegnerli prima del tempo. Energia pura, talenti inconsapevoli che, per la prima volta nella loro vita, si trovano ad errare fuori contesto, oltre il perimetro del linguaggio e dei paesini alle porte di Roma dai quali provengono, oltre le cose conosciute che li rassicurano. E la cosa stupefacente è che il loro è un andare per il mondo senza protezione che funziona, una diaspora che governano con istinto e creatività.

Devi sperare che il viaggio sia lungo, dice il poeta. A volte può bastare un viaggio breve, ma intenso e profondo, un viaggio nella terra di mezzo dove danza il confine tra oriente e occidente. Qui, nel luogo del pericolo, puoi incontrare un sacco di storie incredibili e puoi persino rischiare di incontrare te stesso. L’importante è rimanere in veglia durante l’attesa e magari andargli incontro.
30 novembre 2009  http://www.unita.it/news/91992/diario_dalla_galilea__3

Diario dalla Galilea/4 - «La festa del sacrificio»
di Massimiliano Smeriglio

Verdure tagliate, minestra di lenticchie rosse, pollo su un letto di riso con pinoli e mandorle. Città di Bedjean, villaggio druso. Ancora Galilea. Kamal e sua moglie ci accolgono a casa loro. Quattro pareti di un prefabbricato e un grande giardino davanti con sei tavole apparecchiate. Hanno cucinato un pranzo da matrimonio, nonostante per loro questi siano giorni molto importanti: si festeggia infatti “la festa del sacrificio”, che sarebbe poi l’equivalente del nostro capodanno. Kamal e sua moglie sono drusi, musulmani, israeliani. Popolazione divisa fra Siria, Libano e Israele. Popolazione che monta le diverse divise e che somma alla tragedia generale anche quella della loro dolorosa guerra civile. E’ un regalo che ci fanno, una pausa nelle loro feste. Per ringraziarli della disponibilità, July, che lavora con Edna alla fondazione e che oggi ci accompagna, si è presentata con quattro pacchi di uova fresche e una pianta.

Kamal è uno dei primi a essere entrato a far parte del “Parent Circle”, il forum che riunisce i familiari di quanti hanno perso un parente caro nel conflitto israelo-palestinese. Prima un figlio, poi un altro. Racconta la sua storia e il suo punto di vista. Crede nella reincarnazione, e sa che le anime migrano da un corpo all’altro. Ha lo sguardo fiero Kamal, e il viso segnato di chi nella vita ha subito un lutto. Chissà perché, le tragedie spesso segnano i volti. Sono rughe più profonde dell’età.

Anche Kamed ha quegli occhi, quell’aurea che alcuni uomini si portano dietro; impronte e storie che tolgono il fiato. È venuto con la sua famiglia da un villaggio di Abu Dis al pranzo organizzato oggi, ospite come noi. Fa parte del “Parent Circle” anche lui, ma a differenza di Kamal è palestinese. E sì, perché la forza del progetto del forum sta proprio in questo, nella sua capacità di unire al suo interno israeliani e palestinesi. Kamal ha perso due fratelli dieci anni fa. Il primo aveva 31 anni, il secondo 14. Esiste un “prima” e un “dopo” in alcune vite. Lui per esempio faceva l’insegnante prima di andare in carcere per la sua attività politica; è lì che ha imparato a parlare perfettamente l’ebraico. Ma quando è uscito, dopo un anno e mezzo, si è dovuto inventare un’altra identità perché per fare il maestro non era più buono.

Prima e dopo. Questione di punti di vista sia per Kamal sia per Kamed, che dopo la perdita di un figlio o di un fratello hanno fatto la scelta più difficile: elaborare il lutto, condividere il dolore con tutti quelli che sopravvivono alle morti di una guerra. Per non diventare zombie in terra, e provare magari anche a cambiare le cose. Un sasso in un mare che oggi ci pare un macigno.

“Il dialogo è possibile”. Lo dicono e lo provano a una platea di 20 ragazzi italiani che li ascolta in un silenzio che è apnea. A chi magari di quel conflitto ha avuto fino ad ora solo un’eco lontana. Dice Kamel che la parola da usare è “riconciliazione”, e oggi da qui, da questo giardino, sembra tutto possibile. Dice anche che vanno bene le dichiarazioni di Obama, e che sono una speranza, soprattutto se paragonate al vuoto di prima. Ma quelle parole non bastano, non bastano i leader, dice. Serve l’impegno di quelli che i morti li piangono ogni giorno, un impegno che si fa a partire da “noi”, e in quel noi ci sentiamo tutti coinvolti qui, da questo giardino che oggi sembra essere il centro dell’universo.

E mentre parlano, Kamed e Kamel, non puoi fare a meno di pensare a quanta storia si portano dietro, figli di una vicenda più grande cha cammina da secoli sul filo che unisce e divide le cose del mondo.
01 dicembre 2009  http://www.unita.it/news/92055/diario_dalla_galilea4__la_festa_del_sacrificio

Un falafel per cambiare le cose
di Massimiliano Smeriglio

Ceci, mollica di pane, prezzemolo tritato, aglio, sale, pepe e cumino in polvere. Sono gli ingredienti del falafel, piatto tipico di queste parti. Aspetto fondamentale, la temperatura dell’olio per la frittura, non troppo alta, dice Cesare. Questione di equilibri. Siamo in Galilea, nord di Israele. Cesare fa lo chef al kibbuz Sasa, 450 anime al confine con il Libano, e questa sera dà lezioni di cucina mediorientale. È italiano, ma nel kibbuz ci si è trasferito da più di vent’anni. Vita simile a quella di una comune, socialismo applicato: si lavora per la comunità, senza stipendio. Ognuno dà in base alle proprie possibilità, a ognuno in base alle proprie necessità. Dalle colline dietro alla scuola del villaggio, nel 2006, i cronisti del mondo venivano a raccontare indiretta la guerra con il Libano. Riccardo il falafel l’aveva mangiato solo al chiosco sotto casa, e prima di questo viaggio non sapeva nemmeno dove fosse la Galilea. Ha dovuto cercare sulla cartina e prepararsi per capire che questo fazzoletto di terra racchiude secoli di storia. Ha sedici anni Riccardo e studia per diventare chef. È stato cinque giorni in giro per la Galilea con venti compagni della scuola di gastronomia di Marino, paesino alle porte di Roma, per il progetto “Imparare in amicizia – Beresheet La Shalom”, dell’assessorato al lavoro e formazione della Provincia di Roma. Una settimana di viaggio lungo l’estremo nord di Israele per imparare tecniche di cucina etnica e entrare in contatto con mondi “altri”. Provare sul campo che le differenze sono somma e non sottrazione. Giornate intense, fatte di incontri, di voci e volti. Racconti di popolazioni che resistono, ostinate e caparbie, con le loro tradizioni. I drusi di Beat Jean; i cirkassi di Rehania, gli ebrei ortodossi di Zfat. E il sapore di ricette antiche:lo shawarma, le pitte druse, le spezie della carne della cucina ebraica – tunisina. Giornate di storie. Come quella di Kamel e Kamed, il primo druso musulmano, il secondo palestinese. Entrambi membri del Parent Circle, l’associazione che riunisce chi ha perso un familiare nel conflitto israelo-palestinese. Raccontano il loro dramma, Kamel e Kamed, ma non c’è odio nei loro occhi. Solo il dolore della perdita. Parlano di “riconciliazione” e praticano il dialogo. Unica via per fermare un cerchio che pare una spirale. All’inizio del secolo Nicola Sacco scriveva a suo figlio prima di essere ucciso: non smettere mai di giocare, e la gioia del gioco non tenerla tutta per te. Piccole pillole, sassolini in mezzo al mare, che sono però speranza di cambiamento, fiori preziosi da curare e condividere. Come Riccardo e gli altri, forse per la prima volta alle prese con un mondo più grande della piazza del loro paesino. L’augurio è che continuino il viaggio, che continuino a incontrare le persone e ad ascoltare le loro storie, perché sono le persone che possono cambiare il mondo.
12 dicembre 2009  http://www.unita.it/news/92567/un_falafel_per_cambiare_le_cose
 
NOVEMBRE / DICEMBRE 2009