Teatro Arcobaleno Rainbow Theatre

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Lettere da Pubblico 2004
Il Teatro dell’Arcobaleno mette in scena la Speranza
di Roberto Malini e Loris Liuzzi

4 ottobre 2004. E’ sera. Mancano pochi minuti alle nove. Luci, macchine, gente che si affanna per compiere acquisti o cenare “più veloce della luce” all’interno di un MacDonald. Nel centro della metropoli lombarda non ci si ferma a riflettere su nulla: si osservano lucenti e oscuri oggetti del desiderio oltre le vetrine dei negozi; ci si immerge nella folla indossando inconsapevolmente la maschera senza colore dell’indifferenza. Verso il Teatro San Babila, però, camminano esseri umani dai volti veri, su cui si leggono emozioni che nessuna maschera –neanche quella del clown Ronald MacDonald- potrebbe nascondere. Stasera va in scena la Speranza e i fortunati che accorrono verso la platea e la galleria sanno che assisteranno al “più grande spettacolo del mondo”. Silenzio quasi sacrale in sala. Andrea Jarach, uomo di pace e infaticabile organizzatore di eventi che promuovono l’amicizia fra i popoli, introduce la serata con parole commosse: dalla Galilea, ecco “beresheet”, lo spettacolo di Angelica Edna Calò Livné, interpretato –con i gesti e un pathos senza confronti più che con le parole che sembrano, oggi più che mai, dividerci piuttosto che unirci- dal “Teatron Keshet Bamarom”, il “Teatro dell’Arcobaleno”. Nato nel settembre 2002 per iniziativa di Angelica, il Teatro dell’Arcobaleno ha riunito sotto la bandiera dell’arte ragazzi religiosi del moshavim, ragazzi arabi cristiani e mussulmani dei villaggi circostanti, ragazzi dei Kibbutz e di città. Un progetto che si diffonde con la forza del bene, per divulgare un messaggio di pace nel periodo più difficile della storia di Israele, della Palestina e del nostro tormentato pianeta. Lo spettacolo, quasi tutto mimato, vuole esprimere la tragicità dei momenti che i due popoli stanno tuttora vivendo e l’importanza del dialogo e dell’incontro, essenziali “per non rinunciare alla speranza”. Siamo in platea. La luce si spegne. Il teatro è ricolmo di spettatori di ogni età. L’attesa, la commozione sono presenti e vive nell’aria come una corrente elettrica che unisce spettatori e artisti. Ecco sul palco i ragazzi di Israele, arabi ed ebrei insieme, chiusi in un grande sacco, che si dimenano: vogliono esistere, sperimentare il mondo, forse cercare insieme, come un unico popolo, la felicità. Escono. Portano sui visi una maschera e candide vesti. Hanno i piedi nudi come gli uomini del “Principio” e sono mascherati; l’atmosfera è quella del ditirambo greco, l’origine della tragedia. Sono puri, gli adolescenti della Galilea, identici: maschera è il nome dei loro volti. L’etnologia ci insegna che “al principio” le maschere rituali servivano a far sentire gli iniziati, nelle cerimonie di passaggio, gli uni uguali agli altri. Ma questo, Ronald MacDonald non lo sa. Si sfiorano, i ragazzi e le ragazze, comunicano. Armonia è la loro danza. E’ la rappresentazione dell’uguaglianza, di un equilibrio universale. All’improvviso, uno di loro si sveste della tunica; sotto il candore indossa vesti arancioni. Lo imitano, gli altri e si accorgono di essere diversi. Il popolo arancione e quello viola: colori antitetici. Si creno due fazioni contrapposte. Inizia la rivalità, madre della guerra. “La libertà non esiste più”, “ormai non mi fa effetto più nulla, nemmeno la morte”, “Non c’è nessun posto sicuro!”, “Con quelli non ci si potrà mai parlare!”, “Deve esserci una soluzione… deve esserci una speranza!!!”: cinque frasi, la fine del dialogo. Si vive a poca distanza gli uni dagli altri, ma un muro fatto di parole, di pregiudizi, di paure rende sempre più lontano, alieno e incomprensibile ciò che fino a ieri era chiaro, rassicurante, amichevole. Come un piccolo sole e una piccola luna, i riflettori illuminano una giovane cantante, Lior Hen. La sua voce riempie il teatro e lo riscalda con la canzone “Toccare il sogno”: “Verrà la pace su di noi. Verrà la pace su di noi e sul mondo intero”. Sullo schermo alle spalle dei giovani interpreti, immagini di guerra, di paura, di disperazione. C’è bisogno di luce: lo dicono senza parlare, lo esprimono con la bellezza dei loro gesti, con la grazia dei loro corpi flessibili come virgulti i ragazzi e le ragazze del Teatro dell’Arcobaleno, che si tolgono, uno dopo l’altro, le maschere –corrotte dal tempo- e mostrano al pubblico la grazia dell’innocenza, la purezza della speranza. “Viviamo in Israele, ma vogliamo avere nel nostro gruppo ragazzi della Palestina, vogliamo che in tutto il mondo si parli, si danzi, si canti per la pace,” dicono alla gente, al termine dello spettacolo, seduti gli uni accanto agli altri, ancora con i piedi nudi, come gli antichi filosofi, ma adesso con i vestiti di tutti i giorni. Perché il principio è oggi. Perché un mondo nuovo, senza maschere, senza rancori, senza pregiudizi, può essere fondato adesso. Bello spettacolo, le cui luci si riflettono negli occhi lucidi degli spettatori e la cui essenza è rappresentata dall’esempio dei ragazzi impegnati in una missione di pace. I ragazzi dell’Arcobaleno, i ragazzi di beresheet hanno le idee chiare. Sanno di correre un rischio grave, nonostante siano protetti dalle forze dell’ordine, ma il loro sogno non è costituito dall’ultimo modello di cellulare, dal motorino, dal giubbotto firmato e non è neanche il successo. Il loro sogno è un mondo sereno, in cui ci si possa guardare tutti con fiducia. Magari comunicando gli uni con gli altri attraverso il più bel cellulare, scorrazzando in motorino, capelli al vento e giubbotto firmato. Sono ragazzi e amano la vita!

“Il nostro obiettivo è la pace” spiega la cantante Loir Hen “e pensiamo che il nostro spettacolo possa davvero significare molto”. “Siamo orgogliosi di quello che facciamo e Angelica ascolta sempre i nostri consigli,” afferma sorridendo uno dei giovani artisti. “Il Teatro dell’Arcobaleno è composto da amici che vogliono diffondere nel mondo un messaggio di uguaglianza e pace. Tutti insieme, magari partendo dal nostro piccolo progetto, possiamo farcela”.


 

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