Terra Santa: due donne per la pace.
Due popoli, due storie,
un’amicizia
L’incontro con la Prof. Angelica
Calò Livné e Samar Sahhar si è tenuto in sala Tomadini a Udine, il
07.05.2003.
Prof. Antonella Dorì – Oggi vogliamo
ascoltare due donne che vivono in Terra Santa. Vedremo come nella semplicità
della loro vita siano capaci di costruire luoghi e occasioni concrete
di pace. Sono partite all’1,30 di notte dalla loro terra per essere
qui con noi, quindi vi chiedo un’attenzione particolare nell’ascolto
e che i cellulari siano spenti. La loro esperienza può essere di aiuto
a tutti noi. Questo incontro è stato realizzato soprattutto per i giovani.
L’occasione è nata dal fatto che durante la Quaresima in alcune scuole
sia di Udine che di Cividale alcuni studenti, insieme ai loro insegnanti,
si sono incontrati per invocare la pace con momenti di preghiera e di
riflessione, rispondendo proprio all’appello che il Papa ha fatto il
mercoledì delle Ceneri, il giorno d’inizio Quaresima. Durante le vacanze
di Pasqua ho avuto l’occasione di vedere alla televisione un programma
che raccontava la storia di Angelica e di Samar e sono rimasta molto
colpita. Ho desiderato incontrarle e soprattutto ho pensato ai miei
studenti, alla possibilità che anche loro avessero la possibilità di
sentire la loro storia. Questo è il motivo dell’incontro di oggi, questo
mio desiderio si è potuto realizzare grazie alla loro eccezionale disponibilità
e agli amici del Centro Culturale «Il Villaggio» che hanno sponsorizzato
l’incontro. Adesso vedremo un video breve, che dura 9 minuti, tratto
dal servizio di cui vi parlavo prima, in cui ci vengono presentate Angelica
e Samar. Da qui possiamo capire perché a me la loro storia ha colpito
così tanto.
Viene proiettato un video tratto da una puntata della
trasmissione «Excalibur» condotta da Antonio Socci su Rai 2.
Prof. A. Dorì – Chiedo ad Angelica
che ci racconti soprattutto con esempi, com’è la sua vita, cosa fa durante
il giorno, qual è la sua giornata-tipo e ci spieghi cosa vuol dire vivere
in un kibbutz, cos’è un kibbutz.
Prof. Angelica Calò Livné – Ho questo
accento romano perché sono nata a Roma e quando avevo più o meno la
vostra età (forse un po’ più giovane), sono entrata in un movimento
giovanile della sinistra sionista. A quei tempi studiavo anche al collegio
rabbinico: di solito ci studiano solo i ragazzi, ma io ero molto brava
in ebraico e mi fecero studiare con tutti quei ragazzi ognuno dei quali
oggi è Capo Rabbino in una città d’Italia. Quando avevo vent’anni ho
semplicemente lasciato tutto (la mia famiglia, tutto quello che avevo,
ero al secondo anno di università) e sono andata in Israele in un kibbutz.
Il kibbutz è un tipo di vita molto speciale che esiste solamente in
Israele. La parola kibbutz vuol dire «collettivo» ed è l’espressione
più pura del marxismo, dove ognuno dà «secondo le sue possibilità e
riceve secondo le sue necessità». Io lavoro oggi in 4 scuole diverse,
ho anche un teatro comunitario nel kibbutz e tutto il mio salario va
direttamente nelle casse del kibbutz. Non ho nulla di mio: tutto ciò
che ho, la mia casa, l’automobile sono in comune. Abbiamo una sala da
pranzo comune a tutti, abbiamo dei numeretti per contraddistinguere
i nostri vestiti per cui io non devo nemmeno lavare la biancheria, alla
fine della settimana mando il bucato alla lavanderia comune e torna
tutto lavato e stirato. In questo collettivo tutto è di tutti. Il nostro
è un kibbutz prevalentemente agricolo. Siamo a 900 metri di altezza,
nella Galilea, al confine tra il Libano e la Siria, è un posto veramente
bellissimo. Coltiviamo mele. Se una volta vi capiterà di arrivare in
Israele, se Dio vuole che ci sia finalmente la pace, sarò veramente
felice di ospitarvi. Ci sono circa 200 membri del kibbutz come me che
possono votare all’assemblea e 120 ragazzi, bambini dall’età dell’asilo
fino alla vostra età. Il nostro kibbutz è anche il centro culturale
di tutta la zona, c'è una grande biblioteca, il liceo, la scuola. È
al centro dell’alta Galilea, da una parte, a 5 km a est c'è un villaggio
druso, dall’altra un villaggio circasso, e a 6 km a ovest un villaggio
arabo. Sono etnie che vivono tutte in Israele e ognuna ha una sua fede.
I Circassi sono un popolo che viene dal Caucaso, tutti cristiani, convertiti
a forza alla fine dell’‘800, all’islamismo, che si spostarono dal Caucaso
in varie zone (Israele, Giordania ecc). I Drusi hanno una religione
segreta. Tutti i bambini di questi villaggi studiano da noi. Il kibbutz
è una società basata sull’ideale umanistico e socialista. Il moshav
è un collettivo agricolo però ognuno ha la sua casa, la sua villetta,
le sue proprieta'. Insegno in questa scuola dove ci sono enormi diversità.
Ognuno ha una sua identità, le sue usanze. Noi ebrei ogni mese abbiamo
una festa diversa, solitamente nello stesso periodo c’è la Pasqua ebraica,
cristiana e ortodossa. Gli ortodossi festeggiano la Pasqua una settimana
dopo i cristiani. I bambini imparano a conoscere le culture e le tradizioni
di tutti. Insegno lì da 28 anni, ho tutta la mia famiglia d’origine
ancora in Italia. Ho sempre vissuto con questa gente e improvvisamente
due anni fa, quando è iniziata l’intifada, ho voluto insegnare anche
in altre scuole e ho chiesto di andare ad insegnare in una scuola araba
in un’altra zona. Per me è stato importantissimo, anche se ero già abituata
ad insegnare a persone diverse. Quella era una scuola di soli arabi
e improvvisamente, parlare con quei ragazzi e conoscere la loro mentalità
è stata una cosa importantissima. Penso che quando una persona conosce
più profondamente la cultura dell'altro, impara ad apprezzarlo di più,
a rispettarlo e ad amarlo di più e nello stesso tempo consolida la propria
identità. Ho creato un teatro comunitario. Io insegno teatro. In Israele,
dalla prima elementare fino alla quinta i bambini hanno due ore settimanali
di teatro creativo. È una cosa importantissima, perché da tanti e tanti
anni nel Medio Oriente c’è questa tensione: guerre, attentati, paura.
Nelle lezioni di teatro i bambini possono esprimersi, raccontare, senza
raccontare a volte a parole, le loro paure, i loro sogni, i loro desideri.
Il teatro, il movimento, sono un linguaggio diverso da quello che abitualmente
usiamo, non è una lingua, è un linguaggio di segni, di gesti, i ragazzi
possono esprimersi e dire quello che sentono veramente. Quest’anno ho
chiesto di allestire un teatro comunitario con tutti i ragazzi della
zona. Ho proposto all’assessore alla cultura un progetto di lavoro teatrale
con ragazzi ebrei, cristiani, arabi. L’assessore mi ha detto che sarebbe
stato difficile, con l’intifada, temeva che i genitori dei bambini ebrei
non avrebbero mandato i loro figli sapendo che ci sarebbero stati ragazzi
arabi. Gli ho risposto che volevo realizzare questo sogno perché credo
che facendo incontrare ragazzi diversi, attraverso il linguaggio dell’arte,
si può creare un dialogo. Ora stiamo preparando uno spettacolo di Teatro-danza,
che racconta come vivono i ragazzi della vostra età in Israele, dove
c’è la guerra da sempre. Oltre a tutte le cose che sognate voi e i vostri
coetanei in tutto il mondo come: il motorino, la ragazza, la maglietta
così e le scarpe così, per tutti i ragazzi in MO, ebrei, cristiani o
mussulmani, c'è la paura costante che se si va in discoteca o se si
sale su un autobus, nel migliore dei casi si puo' rimanere senza un
braccio o una gamba o addirittura rimanere uccisi. Ve lo dico così,
in maniera molto cruda. Questo è il mio modo di fare la pace, facendo
capire come sia terribile la guerra! Facendo incontrare ragazzi diversi,
venendo a parlare con voi o fare in modo di farvi conoscere questi ragazzi
un giorno, chi lo sa!
Prof. A. Dorì – Volevo fare due
domande anche a Samar. Volevo che ci raccontasse prima di tutto dell’opera
dell’orfanotrofio e di un’altra nuova opera che sta realizzando, rivolta
proprio alle bambine e alle donne in difficoltà. Vorrei che ci raccontasse
anche le difficoltà che incontra nella realizzazione di queste iniziative.
La domanda successiva, sempre collegata a questa, è la seguente: perché
una cristiana come te si adopera così tanto per aiutare persone che
sono musulmane? Vi chiedo anche qui un po’ di attenzione perché mentre
Angelica parla molto bene la nostra lingua, essendo vissuta a Roma per
20 anni, Samar invece l’ha imparata e quindi ha un po’ di difficoltà
nell’esprimersi.
S. Sahhar – Io ho imparato l’italiano
tra amici qui in Italia. Noi abbiamo un’opera a Betania dove nel 1971
i miei genitori hanno cominciato ad affittare una camera per poter accogliere
alcuni bambini rimasti sulla strada, senza casa. Mi ricordo bene che
il mio babbo ha sempre detto: «10 bambini e basta, noi non possiamo
di più». Eravamo sotto l’autorità militare degli israeliani. Con nostra
sorpresa, l’ufficio sociale israeliano ha portato sempre bambini alla
nostra casa. Il nostro sogno era di poter costruire una casa più grande
per questi bambini, perché era necessario. Abbiamo comprato un pezzo
di terreno. Sono passati 30 anni e questo posto è stato costruito pietra
su pietra, non era un lavoro di un governo, ma di umili servi di Dio.
Ora abbiamo un edificio residenziale che ospita 100 bambini quest’anno,
totalmente abbandonati perché da noi ci sono gli orfani nella strada,
gli orfani a causa della morte dei genitori, o perché sono risultati
del divorzio (sono la maggioranza). Da noi la cultura prevede più mogli,
più famiglie e questi bambini non entrano nel matrimonio nuovo. L’altro
edificio è adibito alla scuola, aperta a tutti i bambini del nostro
villaggio. L’unica scuola che è andata avanti quest’anno era la nostra,
interna, i nostri insegnanti sono i nostri vicini, perché attorno a
noi c’è la guerra e le scuole non possono continuare, gli insegnanti
non arrivano, ci sono posti di blocco. Noi siamo stati fortunati, abbiamo
perso 9 giorni di studio e abbiamo ripreso. Siamo l’unica scuola andata
avanti normalmente quest’anno. Cinque anni fa ho sentito la necessità
di aiutare le donne che sono sempre vissute nella strada e le bimbe
che sono orfane. Da noi pochi accolgono le bambine, non esistono posti
per aiutare le donne, è un’esperienza totalmente nuova in Palestina.
Tramite i nostro ufficio sociale abbiamo avuto 7 donne imprigionate
per nessun motivo, solo perché non sapevano dove andare. Una delle ultime
donne rimaste con noi è quasi cieca, una ragazza-madre che è stata portata
in un angolo della prigione. All’ufficio sociale dicevano che fosse
una donna molto difficile. Io ho detto di voler scegliere sempre i casi
più difficili. Ora questa donna ha avuto il bambino e sono con noi.
C’è un’altra storia che ho promesso di raccontare per tutta la mia vita.
Un rabbino ebreo ha bussato alla mia porta, quando ho visto un rabbino
israeliano ho avuto paura perché non è normale che i rabbini possano
entrare nella nostra zona. Lui è stato con le suore comboniane. Ha trovato
una donna sulla via di Gerico, violentata dal marito e cacciata. Lui
ha rischiato la vita: ha raccolto questa donna in macchina e l’ha portata
fino al nostro posto, indicato dalle suore. Questo rabbino mi ha invitato
ripetutamente a dire a questa donna che gli ebrei la amano e pregano
per lei. Questa donna è una mamma di 10 bambini. I volontari in quell’occasione
hanno commentato: «La casa è cristiana, il rabbino è ebreo, la donna
musulmana». Questo è il progetto nuovo che sto portando avanti con tutte
le difficoltà, perché la gente non ha la mentalità, la cultura di aiutare
le donne. Per aiutare le bambine orfane non ci sono problemi, ma le
donne non sono aiutate, sono condannate anche a morte. Una volta sono
stata in Italia. Al mio ritorno ho trovato che tutti i vicini avevano
firmato per chiudere questa casa, perché è la prima casa in Palestina
nata per aiutare le donne. Mia mamma, fondatrice della casa, ha risposto
alla polizia dicendo: «quando una donna muore uccisa nessuno è responsabile,
ma quando uno vuol aprire una casa, coloro che vogliono chiuderla non
sono “figli di Samar”, non sono parenti nostri: venite a prenderli».
La polizia non ha detto nulla, la nostra opera è continuata. Per la
legge, coloro che uccidono una donna sono liberi, non vanno in prigione,
fanno un atto di onore, diventano orgogliosi per aver ucciso una madre,
o una sorella. Ho ospitato una donna condannata a morte da un capo-villaggio.
È rimasta nascosta da noi per 8 mesi. Dopo che la madre ha saputo il
nostro indirizzo ha chiesto di riaverla e ha promesso davanti a tutte
le autorità che avrebbe perdonato alla figlia. Tornata a casa è stata
ammazzata il giorno dopo. Abbiamo sentito di fare una manifestazione
contro questi oltraggi: la polizia della Palestina non ha protetto questa
dimostrazione, mentre coloro che hanno ammazzato questa donna sono entrati
orgogliosamente nel villaggio manifestando la loro felicità. Questa
è la mentalità della nostra zona. Noi stiamo lavorando adesso personalmente
contro questo oltraggio. Per la prima volta nella televisione giordana
siamo riusciti a discutere apertamente della possibilità di cambiare
questa legge. Finora non è cambiata la legge. Ora vorrei comprare del
terreno a Betania per costruire il primo posto in Palestina per aiutare
le donne e le bambine. Ho ospitato una bimba che è stata incatenata
in una grotta, violentata dalla famiglia, una bimba di 6 anni. È stata
trovata da tre suore quando sono state a Betlemme. È diventata anche
mia figlia. Questo per dare un’idea delle sfide che abbiamo dovuto affrontare
in 30 anni, ogni giorno.
Prof. A. Dorì – Quello che colpisce me, e
penso anche il pubblico, sia dal video, sia dalle vostre testimonianze
è l’atteggiamento lieto e positivo, anche se, da quanto abbiamo capito,
la vostra vita è dura e la terra in cui vivete vive una situazione davvero
terribile: da dove nasce questa speranza che voi ci testimoniate?
Prof. A. Calò Livné – Ogni volta
che vedo Samar, sinceramente sono piena di ammirazione nei suoi riguardi.
Ci vuole un grandissimo coraggio per venire davanti a 400 ragazzi a
raccontare ciò che racconta, perché lei rischia la sua vita gestendo
questa casa per donne, nonostante una mentalità che spesso non rispetta
le donne, né i bambini. Oggi siete testimoni di una cosa molto speciale!
A parte il fatto che ogni volta che ci incontriamo sento da lei nuove
storie: è molto difficile fare una cosa del genere quando intorno hai
una cultura completamente differente. Gli Ebrei e i cristiani hanno
una cultura vicina a quella europea, occidentale, ci sono dei valori
che sono radicati in noi fin dalla nascita, che abbiamo ricevuto in
retaggio e ci scontriamo con mentalita' diverse e lontane a volte anni
luce. Tu mi chiedi come si fa a continuare a vivere. Io ho 4 figli,
3 dei quali hanno più o meno la vostra età. Uno ha 20 anni e in questo
momento è già nell’esercito, uno ne ha 18, sta facendo la maturità,
l’anno prossimo farà un anno di servizio civile poi andrà nell’esercito,
poi ne ho uno di 14 e uno di 5, tutti maschi. Il primo desiderio quando
sono nati, come tutte le madri di Israele è stato: «Dio fa che tra 18
anni non debbano indossare la divisa militare». Purtroppo, tutti i ragazzi
della vostra età, quando arrivano a 18 anni, devono tutti, ragazzi e
ragazze, arruolarsi perché, se guardate una cartina, Israele è grande
come il Veneto e i paesi arabi sono vasti come l’Europa e l’Asia messe
insieme. In Israele ci sono 6 milioni di abitanti e intorno ci sono
300 milioni di arabi, che non vogliono l’esistenza di un Paese democratico.
Israele è l’unico Paese democratico del Medio Oriente. Se Dio vuole,
l’anno prossimo, dopo aver dato la maturiata', voi sceglierete una facolta'
all’università, oppure andrete a lavorare, o a fare un bel viaggio,
invece questi ragazzi si devono arruolare, perché l'esercito israeliano
è un esercito di difesa. Io so che voi sentite messaggi diversi dalla
televisione: so come considerate Israele dal di fuori, ma la prossima
volta che vedrete un servizio al telegiornale su Israele ricordatevi
di Angelica, che ha il cuore spezzato ogni volta che il figlio esce
per andare all’esercito, che ha un figlio infermiere nell’esercito,
infermiere in guerra che, qualche settimana fa, ha giurato, con altri
300 soldati: «Giuro solennemente di dare aiuto e salvare qualunque amico
e qualunque nemico in qualunque momento della mia vita». Quando ho sentito
pronunciare questa frase gli ho chiesto il significato e lui ha detto:
«È esattamente quello che hai sentito mamma». Ma che significa «Salvare
un nemico, salvare un amico?». Mi ha detto che avevano parlato fino
alle 3 di notte con i loro ufficiali: se dovesse trovarsi in un attentato
e andare a soccorrere qualcuno ferito, deve correre prima di tutto dal
ferito più grave, anche se è l’attentatore, il terrorista. Io ho avuto
una reazione antieducativa per una madre, per un’insegnante: «Ma questo
non è giusto, uno fa un attacco terroristico e tu lo vai a salvare?».
Lui mi ha detto di essere stato allenato e addestrato per salvare, questo
è il suo compito morale. Solo Dio può decidere chi prende e chi non
prende a Lui. Mi hanno rimproverato di essere una donna di pace, ma
di mandare i miei figli all’esercito. Io sarei tanto felice sei i miei
figli potessero andare adesso all’università come voi, o a fare una
bella gita in jeep in Nuova Zelanda!!! Ma noi abbiamo una piccola terra
da difendere, abbiamo solo questa e non ci è rimasto più niente. Solo
60 anni fa c’è stata la Shoah, come possiamo fare? Il secondo figlio
mi ha detto: Proprio perché siamo tuoi figli ci arruoliamo, perche'
abbiamo i valori che ci hai insegnato, sappiamo che, se ci troveremo
in un posto in cui ci sono persone che hanno bisogno di aiuto, saremo
i primi a darlo a tutti, anche a quelli che chiamano nostri nemici.
Io non li considero i miei nemici perché mi hai insegnato a conoscere
sia gli ebrei che gli arabi. Se una persona si comporta come me, come
sono io, per me è come tutti. Proprio perché sarò là, farò in modo che
non accada mai niente di immorale!». Immorale può essere, come fanno
vedere qui, che sparano a dei bambini: questo non è mai successo, ma
purtroppo la guerra trasforma le persone e spesso succedono anche cose
che non vorremmo mai che succedessero! La speranza è questa: che ci
siano tante Samar, tante persone disposte a dialogare, ragazzi come
voi che oggi sono qui in silenzio e ascoltano. Voi siete il futuro del
mondo. Voi avete in mano una potenza che non sapete di avere: avete
la possibilità di creare un mondo diverso, dove non ci si schiera a
destra e a sinistra. Si tratta di un mondo che si deve guardare con
la testa, con il cuore, con la nostra morale; un mondo in cui tutti
riescono a dialogare: i cristiani, gli ebrei, i francesi, i russi, i
musulmani; dove tutti riescono a capirsi. Ognuno di voi ha una cultura,
un tesoro enorme dentro di sé e questa è la cosa più bella. Samar crede
in Gesù Cristo, io credo nel Dio di Israele, qualcuno pensa che fare
il presepe sia importante, e un altro accende le candele del sabato:
ognuno di noi ha una grandissima forza e un grandissimo tesoro dentro
di sè! L’importante è rispettare gli altri. La mia esperienza è che
con il poco che noi facciamo si riesca ad arrivare a questo.
S. Sahhar – Se ognuno dei palestinesi
ha un’amica, o un amico, in Israele il nostro mondo sarà migliore, perché
così possiamo entrare in relazione, parlare, lavorare. Adesso ci sono
sempre i muri, i posti di blocco e allora è molto difficile per un popolo
parlare e collaborare. È assurdo un rapporto tra un israeliano e un
palestinese. Io ringrazio sempre Dio, perché ho un’amica israeliana,
possiamo parlare, vedere che soffriamo, perché siamo tutti umani. Noi
in Palestina viviamo sempre in una situazione di guerra totale. Anche
gli israeliani soffrono per le bombe, su un autobus, o un ristorante.
In Palestina c’è la povertà incredibile della gente, perché come risultato
di queste bombe loro non possono neanche comprare da mangiare. Allora
l’unica speranza è nel rapporto, nel dialogo: parliamo, vediamo come
possiamo uscire dalla guerra. In una guerra non ci sono vincitori, ma
sempre vinti, morti. Speriamo che finisca questa guerra subito, altrimenti
non possiamo andare avanti. La pace è l’unico modo di vivere. Ogni notte
in Israele ci sono 80 feriti e morti. Gli israeliani per difendersi
rispondono con i missili sulle case. Chi soffre? Le famiglie. L’unica
speranza è la pace, l’amicizia tra me e Angelica. Se ognuno dei palestinesi
può avere un’amica come Angelica, in Israele sarà finita la guerra.
Prof. A. Dorì –
Prima di fare l’altra domanda volevo leggere due righe del libro autobiografico
di Angelica che parla di Samar: «Angelica provò dal primo attimo la
sensazione di conoscere quella donna da sempre. Era come se fossero
cresciute insieme, se avessero trascorso insieme la loro infanzia, la
loro adolescenza. C’era qualcosa che andava al di là del fatto che Samar
nominasse Gesù ogni due o tre frasi e Angelica non si dimenticasse nemmeno
per un attimo di essere ebrea. Samar e Angelica erano sorelle, punto
e basta. Se non erano nate in questa vita dagli stessi genitori era
successo loro in un’altra vita». Molti pensano che la fede sia uno degli
ostacoli maggiori alla convivenza pacifica fra i popoli. Molti pensano
anzi che la fede sia in realtà una delle cause principali della guerra.
Come potete essere amiche e questa vostra amicizia paradossale rimanere,
pur avendo una fede diversa e appartenendo a due popoli diversi?
Prof. A. Calò Livné – Questa settimana
ho sentito una cosa molto bella. Qualcuno ha detto che chi non rispetta
la cultura degli altri, a quanto pare, non ha una propria cultura. Io
sono profondamente ebrea, mi sento molto legata alla Bibbia, alla mia
storia, alla storia del popolo ebraico e a tutte le sue vicissitudini.
Proprio per questo ho una grande ammirazione per chi si sente profondamente
cristiano, musulmano, buddhista. L’unica cosa che desidero da queste
persone è che riescano a vedere la vera parte della religione, la parte
legata a Dio, la parte spirituale, legata all’anima, al sentimento,
al cuore. Io, credendo veramente nell’ebraismo, so che ci sono 10 leggi
in cui c’è scritto di non rubare, non uccidere, rispettare i genitori,
il prossimo. «Ama il prossimo tuo come te stesso», ma non così, tanto
per amare: ma rispettandolo veramente. Se una persona crede profondamente
in Gesù, o nei 4 pilastri dell’islam in cui c’è la carità, o il recarsi
alla Mecca, va benissimo. Ma io chiedo con tutte le mie forze di non
voler imporre se stesso su di me, di non credere che sia migliore di
me e chiedo di non usare la politica per avvicinarsi a Dio. Questo lo
dico con tutta sincerità. Infatti non ho nessun legame con la politica,
sono un’educatrice, mi sento profondamente tale e penso che chiunque
usi la forza per dimostrare che la sua religione ha un predominio sulle
altre, distrugge l’umanità. Con Samar mi sono sentita bene dal primo
momento, proprio perché lei si sente profondamente cristiana e apprezza
me, perché io mi sento profondamente ebrea anzi possiamo solo arricchirci
a vicenda ed è così con tutte le altre persone con cui entriamo in contatto.
S. Sahhar – Madre Teresa una volta
ha detto: «Se i cristiani vivono la fede loro nel modo giusto, se i
musulmani vivono la fede nel modo giusto, se gli ebrei vivono la loro
fede nel modo giusto, ci sarà la pace nel mondo». Dio in tutte le religioni
è venuto con un messaggio unico: è un messaggio di amore. Tutte queste
storie di guerra non sono fatte da Dio, ma dagli uomini, perché non
è possibile che Dio uccida. I musulmani integralisti credono che se
ammazzano 100 persone vanno in un Paradiso a 5 stelle: non è possibile
che Dio sia così. Nelle tre religioni Dio è un Dio di amore. Se ognuno
di noi può vivere questa fede con amore, amicizia e giustizia, sarà
un mondo in pace.
Prof. A. Dorì – Volevo farvi una
domanda riguardo alla vostra professione: siete entrambe educatrici.
Vorrei chiedervi che ci spiegaste il ruolo delle’educazione nel costruire
un nuovo mondo di pace, un futuro di pace.
Prof. A. Calò Livné – Tutti qui
oggi hanno sentito delle cose diverse da ciò che pensavano o visto cose
diverse da ciò che credevano. È stata una grande occasione per voi ricevere
questa opportunità dai vostri professori perché non succede ogni giorno
di vedere cose diverse. Perfino io le vedo diverse ogni volta. Credo
profondamente che, attraverso l’educazione, il mondo possa cambiare.
La potenza più grande non sono la politica e i soldi, la forza veramente
grande è l’educazione: ragazzi che possono acquisire già da giovani
valori diversi da quelli della televisione o da certi film che ci vengono
propinati. La globalizzazione oggi ci dà certi imput che sembrano dire
che la cosa più importante sia essere belli, ricchi e potenti. Alla
fine si può essere tutto questo, ma la cosa più importante di tutte
è essere tranquillo con te stesso, con la tua coscienza, col tuo spirito.
La vostra età è il momento più importante per acquisire certi valori:
essere coinvolti in ciò che abbiamo intorno, essere sinceri con noi
stessi, essere aperti. Ho le mie idee, ma se qualcuno me ne mostra una
nuova sono pronta ad aprire un’altra porta e scoprire che ci sono 100.000
nuove possibilità. Dare delle chances, delle possibilità di cambiare
anche noi stessi e le persone che amiamo. Questo è quello che cerco
di fare. Durante la settimana ho 280 alunni, ragazzi ebrei ed arabi
insieme e ringrazio Dio che mi ha scelto per farmi diventare educatrice,
questo è ciò che mi dà la forza di sopravvivere e di dire che sto facendo
qualcosa che forse potrà cambiare la realtà. Per cui vi ringrazio moltissimo
per l'attenzione con cui avete ascoltato!
S. Sahhar – Voglio raccontare una
storia, per dire che insegnare la pace è una cosa molto importante.
Dio ha creato noi come israeliani, ebrei, musulmani, cristiani. Un giorno
è uscita una ragazza dalla mia casa a Betania e ha incontrato un’israeliana,
Emma, una mia grande amica, che viene sempre a trovarmi. Quel giorno
Emma trasportava tantissimo cibo con l’aiuto di mia figlia.
Al ritorno c’erano alcune donne che le hanno chiesto perché l’ha aiutata,
essendo lei israeliana. Io ho detto che Emma è nostra amica, ci ama.
Abita a Betania, mentre gli israeliani non possono abitare a Betania.
Compra il cibo non per sé, ma per i palestinesi che non hanno il cibo
nelle loro case. Questo è un metodo di educazione: siamo umani, amici.
Lasciamo perdere la politica. Emma è una donna così grande perché ha
accettato la sfida di abitare a Betania e può essere ammazzata per questo.
Segue la proiezione di un video di Angelica in
cui si vedono delle scene tratte dalle prove di teatro creativo organizzato
da Angelica.
Prof. A. Calò Livné – È uno spettacolo
in preparazione, con ragazzi dai 14 ai 24 anni. Mostra come vivono questi
ragazzi in Medio Oriente, con la paura di quanto succede. Finite le
prove i ragazzi sono esausti. C’è molta tensione: ogni volta che c’è
un attentato i ragazzi israeliani non vogliono fare le prove con gli
arabi, che si sentono mortificati perché non si sentono responsabili,
non tutti sono così. Perciò cerco sempre di fare esercizi, perché si
riuniscano. Alla fine della prova un ragazzo arabo ha portato una musica
araba, piano piano si sono aggregati tutti quanti e hanno ballato. A
voi sembrerà forse una sciocchezza, ma pensate che sono ragazzi ebrei
e arabi insieme: questo dimostra che si può. Ogni volta che si fa insieme
qualcosa è qualcosa di bello. Nel video hanno tutti quanti una maschera
per dimostrare che tutto il mondo in guerra è malato. La libertà non
esiste più. I ragazzi dicono nel video: «SUCCEDE COSI SPESSO CHE ORMAI
NON MI FA EFFETTO PIU' NULLA, NEMMENO LA MORTE». Questa è una delle
paure dei ragazzi della vostra età, abituati al terrore. Non c’è più
un posto tranquillo dove andare. Con quelli non si può parlare. Quando
c’è una guerra tutte e due le parti dicono: «Con quelli non si può parlare».
Non voglio smettere di sperare, ci deve essere una possibilità di pace.
Quando qualcuno può coinvolgere nella propria cultura un’altra persona
è una grande gioia, una cosa bellissima.
Prof. A. Dorì – Per concludere leggo
alcune righe tratte dal discorso che Giovanni Paolo II ha fatto quest’anno
in occasione della giornata mondiale della pace: «A voler guardare le
cose al fondo si deve riconoscere che la pace non è tanto questione
di strutture, quanto di persone. Strutture e procedure di pace (giuridiche,
economiche, politiche) sono certamente necessarie e fortunatamente a
volte sono anche presenti. Però esse non sono altro che il frutto della
saggezza e dell’esperienza accumulata lungo la storia mediante innumerevoli
gesti di pace, posti da uomini e da donne che hanno saputo sperare senza
cedere mai allo scoraggiamento. Gesti di pace nascono dalla vita di
persone che coltivano nel proprio animo costanti atteggiamenti di pace.
Sono frutto della mente e del cuore di operatori di pace. Gesti di pace
creano una tradizione e una cultura di pace». Io credo che oggi abbiamo
incontrato due persone che concretamente mettono in pratica queste parole
del Papa.
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