Sognatori nel sangue
A sessant’anni dalla nascita di Israele, si
festeggia e si continua a combattere. Ma c’è
anche chi non smette di sognare la pace e lavora
ogni giorno per realizzarla. L’esperienza di
Angelica Calò Livné
La strada che
Angelica Calò Livné
percorre per raggiungere la valle
dal Kibbutz Sasa, nelle Galilea settentrionale,
corre per cinquanta chilometri
lungo il confine con il Libano.
“Fino all’anno scorso, era martellata
dalle artiglierie e so che i razzi sono
ancora là, puntati su
di noi, come quelli
di Gaza che, solo
oggi, hanno abbattuto
tre case”.
Angelica
è nata a Roma. A
vent’anni, nel 1975,
Angelica ha deciso
di trasferirsi in un
kibbutz “per vivere
in un luogo dove
ognuno dà quel che può, prende
quanto gli serve e lo stipendio del
direttore della fabbrica è uguale a
quello degli operai.” Perché, nei Kibbutzim,
non si lavora per il guadagno,
ma per sostenere la comunità. E lì
Angelica ha scelto di vivere così. Fin
da quando aveva dodici anni, entrò
in contatto con il movimento giovanile
ebraico Hashomer Hatzair, La
giovane guardia, laico e di sinistra e,
contemporaneamente, cominciò a
frequentare i corsi del Collegio Rabbinico
di Roma. Tradizione e cosmopolitismo,
le due anime di “un ebraismo
che” dice “non è una religione, ma un
popolo intero, variegato e pluralista”.
“Al pari di Israele, che” racconta con
l’emozione nella voce “non è solo
democratico ma anche plurale, variegato
e vivo, con il tasso di suicidi più
basso del mondo ed il più alto indice
di natalità, perché gli israeliani
continuano ad amare la vita, nonostante
tutto, in modo
indescrivibile”.
Ma
Israele è anche un
Paese in armi. Il suo
primo incontro con
la guerra Angelica
l’ebbe nell’81, quando
il marito partì
per il Libano e lei
rimase sola, con in
grembo il loro primo
figlio: “E io gli parlavo” racconta “dicendo
che a lui non sarebbe successo,
perché, una volta cresciuto, la regione
sarebbe stata in pace”. La divisa,
però, dovette indossarla anche
il figlio. Era il 2001, l’inizio della seconda
Intifada. “Ogni giorno, si contavano
almeno tre attentati”. Aver paura
di salire sull’autobus, di entrare in
un supermercato, chiedersi se i propri
cari torneranno a casa, sono sensazioni
che non possono essere trasmesse.
Ma perché la guerra continua?
“Io” dice Angelica “ ho sempre
votato per la sinistra israeliana”,
quelli di Peace Now e del ritiro dagli
insediamenti “e ricordo la destra
che ci accusava di essere responsabili
della guerra, perché ci eravamo
fidati degli Arabi. Ora, non sono più
così sicura che avessero torto.
I Palestinesi”
prosegue, “sono vittime,
come noi del resto, dei loro capi,
dei Paesi Arabi che li hanno strumentalizzati
per indebolirci. Lo Stato
di Israele è nato l’anno successivo il
piano per la spartizione della Palestina,
nel ’47, quello palestinese mai,
perché i palestinesi furono persuasi
a rifiutarlo. E fu la nostra comune
rovina. Da allora insegnano ai bambini
che Israele è terra loro, crescendoli
nell’odio, ma quello che
un tempo era un deserto, oggi è un
giardino e una distesa di fabbriche
tecnologiche. E l’abbiamo fatto noi.
Quindi, come possono pretendere
che appartenga loro? E a cosa serve
continuare così? A volte” aggiunge
“ho l’impressione che molti palestinesi
abbiano più a cuore la distruzione
d’Israele che il loro stesso benessere.
Io” prosegue con foga “provo pena
per loro, perché non si può star bene
mentre il tuo vicino soffre, ma provo
anche rabbia, perché, in questo
momento, due dei miei figli, invece
che all’Università, sono sotto le armi”.
E in guerra rischiano di perdere la
loro umanità oltre che la vita.
“Gli
attentati terroristici” continua Angelica
“sono cessati perché soldati come
mio figlio rastrellano le case dei potenziali
attentatori e li prevengono.
Mi ha raccontato che una notte, sono
entrati in una casa e hanno trovato
cinture esplosive vicine ai bambini
dell’attentatore: mio figlio sapeva,
mentre portava via il padre, che quei
bambini lo avrebbero odiato per
sempre, ma sapeva anche che, facendo
altrimenti, sarebbero stati i
bambini israeliani a saltare in aria.
E, dicendo questo, si lacerava perché
un ragazzo cresciuto tra i libri, il pianoforte
e gli insegnamenti alla tolleranza,
non può che farsi violenza
per bloccare le persone ai check-point
o perquisire una donna che forse
non è incinta come sembra, ma trasporta
esplosivi”. La situazione è così
compromessa, che pare non ci sia
soluzione, ma Angelica continua a
sperare che “si possa vivere insieme e
che, dall’altra parte, ci siano persone
che la pensano come me”.
Per questo,
e per non chiudersi in “camera
a piangere”, ha dato vita alla fondazione
Beresheet LaShalom - Un inizio
per la pace. “Insegnavo teatro e
educavo i ragazzi. Prendendoli tra i
miei studenti ho raccolto una compagina
teatrale nella quale potessero
recitare ragazzi di tutte le religioni,
perché conoscendosi, potessero superare
i pregiudizi e imparassero a
vivere insieme. Ha funzionato e allora
ho capito che, se posso vivere
in pace con il mio vicino, c’è una
speranza che vi si riesca anche con
chi vive a Ramallah”.
Il gruppo, battezzato
Arcobaleno “perché composto
da tanti colori diversi”, è divenuto
un simbolo di pace. A maggio,
in Italia per la diciottesima volta, ha
partecipato alla Fiera del libro di Torino,
dove Angelica Calo’ Livné ha
presentato il suo ultimo libro: “Diario
della Galilea - solo in pace vincono
tutti”, edito da Proedi.
Quella di Angelica è una speranza
come il canale che, in un paio d’anni,
collegherà il Mar Rosso al Mar Morto,
addolcendone le acque e trasformando
chilometri di terre desertiche
in campi fertili. “Verranno costruiti
agglomerati urbani e alberghi, dando
lavoro a tantissimi Israeliani, Giordani
e Palestinesi. È attraverso il benessere”,
racconta infatti “che si crea
la pace” ed Angelica è contenta di
“vivere in un Paese capace, nonostante
anni di disperazione e guerra,
di coltivare sogni di questa grandezza”.
Tommaso Vesentini