BERESHEET LA SHALOM TEATRO ARCOBALENO

Stampa 2008

 


 

 

 

Sognatori nel sangue
A sessant’anni dalla nascita di Israele, si festeggia e si continua a combattere. Ma c’è anche chi non smette di sognare la pace e lavora ogni giorno per realizzarla. L’esperienza di Angelica Calò Livné

La strada che Angelica Calò Livné percorre per raggiungere la valle dal Kibbutz Sasa, nelle Galilea settentrionale, corre per cinquanta chilometri lungo il confine con il Libano. “Fino all’anno scorso, era martellata dalle artiglierie e so che i razzi sono ancora là, puntati su di noi, come quelli di Gaza che, solo oggi, hanno abbattuto tre case”.

Angelica è nata a Roma. A vent’anni, nel 1975, Angelica ha deciso di trasferirsi in un kibbutz “per vivere in un luogo dove ognuno dà quel che può, prende quanto gli serve e lo stipendio del direttore della fabbrica è uguale a quello degli operai.” Perché, nei Kibbutzim, non si lavora per il guadagno, ma per sostenere la comunità. E lì Angelica ha scelto di vivere così. Fin da quando aveva dodici anni, entrò in contatto con il movimento giovanile ebraico Hashomer Hatzair, La giovane guardia, laico e di sinistra e, contemporaneamente, cominciò a frequentare i corsi del Collegio Rabbinico di Roma. Tradizione e cosmopolitismo, le due anime di “un ebraismo che” dice “non è una religione, ma un popolo intero, variegato e pluralista”. “Al pari di Israele, che” racconta con l’emozione nella voce “non è solo democratico ma anche plurale, variegato e vivo, con il tasso di suicidi più basso del mondo ed il più alto indice di natalità, perché gli israeliani continuano ad amare la vita, nonostante tutto, in modo indescrivibile”.

Ma Israele è anche un Paese in armi. Il suo primo incontro con la guerra Angelica l’ebbe nell’81, quando il marito partì per il Libano e lei rimase sola, con in grembo il loro primo figlio: “E io gli parlavo” racconta “dicendo che a lui non sarebbe successo, perché, una volta cresciuto, la regione sarebbe stata in pace”. La divisa, però, dovette indossarla anche il figlio. Era il 2001, l’inizio della seconda Intifada. “Ogni giorno, si contavano almeno tre attentati”. Aver paura di salire sull’autobus, di entrare in un supermercato, chiedersi se i propri cari torneranno a casa, sono sensazioni che non possono essere trasmesse. Ma perché la guerra continua? “Io” dice Angelica “ ho sempre votato per la sinistra israeliana”, quelli di Peace Now e del ritiro dagli insediamenti “e ricordo la destra che ci accusava di essere responsabili della guerra, perché ci eravamo fidati degli Arabi. Ora, non sono più così sicura che avessero torto.

I Palestinesi” prosegue, “sono vittime, come noi del resto, dei loro capi, dei Paesi Arabi che li hanno strumentalizzati per indebolirci. Lo Stato di Israele è nato l’anno successivo il piano per la spartizione della Palestina, nel ’47, quello palestinese mai, perché i palestinesi furono persuasi a rifiutarlo. E fu la nostra comune rovina. Da allora insegnano ai bambini che Israele è terra loro, crescendoli nell’odio, ma quello che un tempo era un deserto, oggi è un giardino e una distesa di fabbriche tecnologiche. E l’abbiamo fatto noi. Quindi, come possono pretendere che appartenga loro? E a cosa serve continuare così? A volte” aggiunge “ho l’impressione che molti palestinesi abbiano più a cuore la distruzione d’Israele che il loro stesso benessere. Io” prosegue con foga “provo pena per loro, perché non si può star bene mentre il tuo vicino soffre, ma provo anche rabbia, perché, in questo momento, due dei miei figli, invece che all’Università, sono sotto le armi”. E in guerra rischiano di perdere la loro umanità oltre che la vita.

“Gli attentati terroristici” continua Angelica “sono cessati perché soldati come mio figlio rastrellano le case dei potenziali attentatori e li prevengono. Mi ha raccontato che una notte, sono entrati in una casa e hanno trovato cinture esplosive vicine ai bambini dell’attentatore: mio figlio sapeva, mentre portava via il padre, che quei bambini lo avrebbero odiato per sempre, ma sapeva anche che, facendo altrimenti, sarebbero stati i bambini israeliani a saltare in aria. E, dicendo questo, si lacerava perché un ragazzo cresciuto tra i libri, il pianoforte e gli insegnamenti alla tolleranza, non può che farsi violenza per bloccare le persone ai check-point o perquisire una donna che forse non è incinta come sembra, ma trasporta esplosivi”. La situazione è così compromessa, che pare non ci sia soluzione, ma Angelica continua a sperare che “si possa vivere insieme e che, dall’altra parte, ci siano persone che la pensano come me”.

Per questo, e per non chiudersi in “camera a piangere”, ha dato vita alla fondazione Beresheet LaShalom - Un inizio per la pace. “Insegnavo teatro e educavo i ragazzi. Prendendoli tra i miei studenti ho raccolto una compagina teatrale nella quale potessero recitare ragazzi di tutte le religioni, perché conoscendosi, potessero superare i pregiudizi e imparassero a vivere insieme. Ha funzionato e allora ho capito che, se posso vivere in pace con il mio vicino, c’è una speranza che vi si riesca anche con chi vive a Ramallah”.

Il gruppo, battezzato Arcobaleno “perché composto da tanti colori diversi”, è divenuto un simbolo di pace. A maggio, in Italia per la diciottesima volta, ha partecipato alla Fiera del libro di Torino, dove Angelica Calo’ Livné ha presentato il suo ultimo libro: “Diario della Galilea - solo in pace vincono tutti”, edito da Proedi. Quella di Angelica è una speranza come il canale che, in un paio d’anni, collegherà il Mar Rosso al Mar Morto, addolcendone le acque e trasformando chilometri di terre desertiche in campi fertili. “Verranno costruiti agglomerati urbani e alberghi, dando lavoro a tantissimi Israeliani, Giordani e Palestinesi. È attraverso il benessere”, racconta infatti “che si crea la pace” ed Angelica è contenta di “vivere in un Paese capace, nonostante anni di disperazione e guerra, di coltivare sogni di questa grandezza”.

Tommaso Vesentini

GIUGNO 2008
 

 
 
 

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